Viaggiammo per giorni a ritmo intenso, fermandoci solo di rado per brevi soste necessarie a far riposare cavalli e cocchieri.
Vista l’abbondanza di tempo da far passare nel carro, riuscii a finire tutto il primo libro e ad arrivare a metà del secondo. Anche quella lettura si dimostrò ben poco divertente, tuttavia la continuai solo per superare la noia e smettere di pensare alle mille cose che mi riempivano la testa: Dearan e Kamila, la cotta di Jimbo per la contorsionista, le risate ritrovate di Dearan; più mi soffermavo su argomenti come questi e più mi sembrava di entrare in un vortice di cui non vedevo né capo né coda. Ma come facevo a cacciarmi sempre in situazioni come quella? Avevo appena riguadagnato la libertà e da quel momento in avanti avrei dovuto solo rilassarmi e godere di quell’avventura, e invece senza nemmeno accorgermene ero riuscita a complicare tutto in un modo che nemmeno capivo.
Decisamente tipico mio!
Quindi molto meglio leggere, anche se si trattava di letture non troppo appetibili.
La mia finestra rimase aperta per tutta la durata del viaggio, ciò nonostante sbirciai fuori molto di rado. Osservare il panorama in movimento mi dava dì per sé la nausea dopo pochi minuti, e in aggiunta a questo – proprio come Dearan aveva previsto – non si era più vista una giornata di sole dalla nostra avventura sopra al carro. Risultato? Puntare quel cielo cupo pieno di nuvole che promettevano pioggia senza liberarsi mai finiva col peggiorare il mio umore, rendendomi più scontrosa del tollerabile con gli altri nelle brevi soste e con me stessa mentre ero sola.
Fu con quello stato d’animo che andai a dormire la notte di una sera come tante altre, dopo una cena frettolosa e poche chiacchiere scambiate con Fergal e Li Zhou, gli unici che sembravano immuni a quel tempo fosco e al mio malumore. Rientrata nel carro mi accoccolai come sempre sul mio giaciglio, scostai nervosamente i capelli dal viso appiccicoso per l’afa sottile – ormai diventata insopportabilmente familiare in quelle giornate – e mugugnando di fastidio scivolai in un sonno inquieto.
Una mano decisa mi scrollò dopo quelli che mi parvero pochi minuti, strappandomi un grugnito sordo.
Senza riuscire ad aprire gli occhi rimasi ferma, in attesa, e quando nient’altro ritornò a disturbarmi con uno sbuffo mi abbandonai un’altra volta sul pagliericcio. La mano mi strinse l’avambraccio un’altra volta, scuotendomi un po’ più forte.
«Ma chi accidenti…?». Socchiusi gli occhi cisposi trovando una luce grigia ad accogliermi. Era già giorno? Non lo sapevo e non avevo alcuna voglia di scoprirlo. «… Lasciami stare, voglio dormire…», borbottai contrariata, cercando di liberarmi dalla presa. La mano però continuò tenace.
«Svegliati!».
Addrizzando il capo aprii solo un occhio.
«… Dearan?».
«No, sono la fatina dei denti», rispose con uno sbuffo. «Avanti, alzati!».
«Ma che ore sono?».
«Chi se ne frega dell’ora,
alzati e basta!», mi rimbrottò bisbigliando.
«Perché parli così piano?».
Sbuffò ancora. «Non immaginavo di dover rispondere a un interrogatorio, altrimenti mi sarei preparato meglio», ironizzò infastidito. «Se
tu avessi la decenza di
svegliarti lo capiresti da te senza tormentarmi con stupide domande come questa: parlo piano semplicemente perché non voglio che gli altri ci sentano, genio!».
Sbattendo gli occhi cisposi lo guardai accigliata.
«E perché non vuoi che gli altri…».
«AH! Basta così!».
Chinandosi su di me m’infilò di forza un braccio nell’incavo delle ginocchia e uno poco sotto le braccia, e afferrandomi per bene con uno sbuffo di fatica m’issò su. Stringendomi istintivamente al suo collo per poco non lanciai un grido di sorpresa e protesta, zittita all’istante da una sua occhiataccia minacciosa.
«Ora stai buona, stringiti forte e
non fiatare».
«Ma perché…».
«
Non-fiatare!».
«D’accordo ma…».
Dearan digrignò i denti tanto da farli stridere in modo minaccioso, e nel momento esatto in cui i suoi occhi pallati mi bucarono da parte a parte ubbidiente mi limitai a nascondere le labbra all’interno della bocca annuendo veloce. Il suo messaggio era stato abbastanza chiaro.
Avvinghiata a lui mi lasciai portare fuori dal carro senza battere ciglio, insieme attraversammo il campo improvvisato per la notte, e infine arrivammo poco oltre il limitare del bivacco. A quel punto con un verso di fatica Dearan mi lasciò cadere di peso, facendomi atterrare con malagrazia e senza preavviso su una distesa di basse sterpaglie scricchiolanti.
«Ohi!… Ma che accidenti ti passa per la testa?», gli chiesi con occhi rabbiosi massaggiandomi il didietro sofferente. «Prima vieni a prendermi di peso nel mio carro all’alba e ora tenti di spaccarmi
l’osso del collo?!».
Dearan mi rispose con un ghigno allegro. «Se tu
quello lo chiami collo ogni tanto non mi dispiacerebbe farti da collana».
M’imporporai in un attimo.
«Uno di questi giorni
giuro che ti darò uno schiaffo così forte da lasciarti su quella faccia tosta la firma delle mie cinque dita a vita!», sbottai cercando di mettermi su senza smettere di massaggiarmi. «Ouch… ringrazia solo che quelli non fossero rovi…».
«Le minacce tienile buone per la prossima volta. Ora dobbiamo muoverci. Il tempo fugge».
Lo fissai curiosa. Dearan aveva smesso di guardarmi da un po’, dedicando la sua attenzione al cielo fosco colmo di nuvole nere e pesanti.
«Dove andiamo?».
«In un posto tranquillo». Senza preavviso mi afferrò per un polso. «Forza, cammina».
Non protestai nemmeno. Ormai avevo imparato il trucco per evitare inutili discussioni con Dearan: lasciargli fare tutto ciò che voleva, tanto in qualunque modo l’avrebbe ottenuto ugualmente.
Quella zona era così insolitamente ricca ed eterogenea che ci trovammo a scivolare tra cespugli e prati verdi, tra terriccio selvaggio e boscaglie abbondanti di funghi, tra sassaie attorno a fiumiciattoli e distese di fiori bianchi, fino a fermarci in una sorta di campo aperto, puntellato di denti di leone – con i loro fiori gialli e i delicati e caratteristici frutti di fili bianchi – e campanule violette. Mi guardai attorno in attesa, cercando nei paraggi il motivo di quel risveglio forzato, ma non vidi nulla oltre a noi, il tarassaco e le campanule.
«Ci siamo quasi», disse Dearan affannato dandomi la schiena. La sua attenzione era tornata al cielo. «Ancora qualche minuto al massimo».
Infastidita da tutto quel mistero mi schiarii la gola con un secco colpo di tosse.
«
Di grazia, mi è finalmente concesso sapere cosa accidenti ci facciamo qui?».
Dearan sospirò. «Aspettiamo».
«Aspettiamo
cosa?», insistetti alzando le braccia al cielo.
In quell’esatto momento una goccia mi cadde su una guancia, attirando la mia attenzione.
«Questo». Voltandosi adagio verso di me mi dedicò un sorriso incerto. «Aspettiamo che piova».
Lo guardai senza parole mentre altre gocce iniziavano a seguire la prima, sempre con maggiore intensità; ecco arrivarne una sulla spalla e un’altra sul naso, una sulla testa e un’altra sul mignolo della mano sinistra. E poi due alla volta, sempre più grosse, sempre più forti, fino a far risuonare le piante e il terreno intorno a noi del loro frenetico picchiettare.
Ripiegandomi su me stessa cercai istintivamente di proteggermi da quei colpi delicati, squadrando contrariata la felicità sul viso di Dearan. Con gli occhi chiusi e le braccia spalancate si era abbandonato alla pioggia con un sorriso a labbra strette, riempiendo così tanto le guance da renderle due tondi pomelli lucidi d’acqua piovana.
«Qualche sera fa, dopo la festa», cominciò riaprendo riluttante gli occhi, «ti ho parlato del respirare la pioggia…».
Il mio cattivo umore di quei giorni, il risveglio forzato e il temporale sulla testa non mi aiutarono a dimostrarmi paziente.
«Oh,
ti prego», sbottai interrompendolo brusca. «Non avevo la minima idea di cosa intendessi allora, figuriamoci adesso!».
«Lo so», bisbigliò lui. Sembrava lievemente a disagio. «Per questo ti ho portata qui. Non è una cosa che si può
spiegare. Se voglio che tu capisca, posso solo
fartela provare».
Tentennai fissandolo attenta. Dearan era diverso dal solito, questo riuscivo a vederlo anche attraverso il mio umore nero. Mi guardava con occhi grandi, pieni di un sottile senso d’attesa, studiando i miei lineamenti rigidi senza l’arguzia di sempre. La pioggia rimbalzava sui suoi spessi capelli scuri afflosciandoli appena, dandogli un’aria da pulcino bagnato che contrastava così tanto con l’immagine che avevo di lui da strapparmi un lieve sorriso. Era come se davanti a me non avessi più lo spigliato individuo carismatico capace di riunire attorno a sé un gruppo di gente pronta a seguirlo senza fiatare, ma un bambino eccitato e al tempo stesso spaurito e indifeso, in cerca di comprensione. Accigliandomi curiosa a quel pensiero ignorai per un po’ la pioggia che cadendo sempre più forte cominciava a infradiciarmi.
«Chiudi gli occhi», bisbigliò.
Mantenendo la mia espressione poco convinta esitai.
«Ti prego… ti chiedo solo di provarci».
Davanti a quella richiesta, così stonata sulle sue labbra, senza distendere il mio cipiglio presi un bel respiro e ancora riluttante ubbidii. Restammo fermi e in silenzio per qualche momento, finché la mia pazienza non vacillò.
«… E adesso?», sbuffai.
«Respira».
Aprii solo un occhio per squadrarlo poco convinta. «Tutto qui?».
«Sì», mormorò mesto. «Tutto qui».
La cosa continuava a sembrarmi illogica, tuttavia, decidendo che almeno un tentativo potevo concederglielo, richiusi entrambi gli occhi, sgranchii le spalle, e forzandomi di essere un po’ più collaborativa provai a eseguire la richiesta. Inspirai profondamente, trattenni il respiro qualche attimo, e di slancio ributtai fuori l’aria. Sapevo che avrei dovuto concentrarmi e provare a liberare la mente – anche solo cacciare parte del mio nervosismo probabilmente sarebbe stato sufficiente – ma la pioggia che mi batteva addosso inzuppandomi da capo a piedi mi deconcentrava, innervosendomi ancora di più.
«Fatto», esclamai stizzita, ritornando a guardare il mondo annacquato che mi circondava.
Dearan mi squadrò con un brillio interessato negli occhi.
«E allora», prese fiato, «come ti senti?».
Guardandolo torva da sotto i rivoli d’acqua che iniziavano a scivolarmi giù dalla fronte notai chiaramente la fremente attesa nel suo sguardo, eppure nemmeno questo mi fermò dal dire la cosa più sbagliata che ci fosse.
«Mmm». Lanciai un’occhiataccia verso il cielo. «Direi…». Dearan mi sorrise impaziente. «… Bagnata?».
Che la mia ironia fosse fuori posto me ne accorsi un istante troppo tardi.
Fu come se ogni accenno d’emozionata attesa, buon umore, serenità e benessere di cui Dearan era tanto pieno fino a poco prima fossero stati lavati via dall’acqua, venendo sostituiti in un batter di ciglia da un’espressione rigida di profonda delusione. Nemmeno davanti alle mie peggiori figuracce durante i nostri addestramenti l’avevo mai visto così, e questo semplice pensiero bastò a risvegliare in me un cocente senso di pentimento. Cosa avevo combinato con la mia leggerezza?
Con piglio pungente e risentito indurì minaccioso la mascella.
«Bene», disse gelido serrando i pugni, «buono a sapersi».
Facendomi guardinga lo scrutai schiudendo appena le labbra, ritrovandomi con la bocca piena di pioggia dopo pochi attimi. Mi sentivo confusa, preoccupata e, anche se non ne capivo completamente il senso, tanto colpevole che perfino il mio malumore sembrò addolcirsi di colpo. Passandomi le mani sul viso per asciugarlo un momento da tutta quella pioggia incessante continuai a non distogliere da lui la mia attenzione.
«Scusami… ero… ero distratta», bofonchiai a voce alta per sovrastare il rumore dello scroscio. «Adesso ci riprovo e vedrai che…».
Una saetta tagliò il cielo facendomi sussultare. Dearan invece rimase impassibile.
«Vattene».
Il fragore del tuono rimbombò attorno a noi la sua rabbia.
«… Cosa?», mormorai quando il rimbombo si fu spento, scoprendo d’aver perso la voce.
La risposta di Dearan arrivò netta e gelida.
«Torna al campo.
Adesso».
Mi strinsi nelle spalle riuscendo a scuotere solo il capo con incredula lentezza. Una sottile inquietudine iniziava a farsi strada in me, insieme alla sensazione d’aver inavvertitamente rotto qualcosa che forse non avrei più potuto accomodare.
«Dearan io…».
Come se non avessi fiatato si voltò deciso e iniziò a solcare il campo dalla parte opposta a quella del ritorno.
«No… aspetta!».
Non si fermò né diede segno d’avermi sentita. Senza pensarci mi lanciai dietro di lui.
«Dearan… aspetta…!
Scusami! Mi spiace, ero nervosa e ho reagito da stupida, me se tu ora vuoi…».
Bloccandosi di colpo tornò a voltarsi per fronteggiarmi. La sua espressione era cambiata ancora, e prima di riuscire a finire la mia frase due occhi intensi, tristi e minacciosi, mi passarono da parte a parte, facendomi arretrare di scatto.
«Torna al campo e lasciami solo». Un altro lampo illuminò il cielo grigio. «
Solo, hai capito?». Il tuono lo seguì. «Io non ho bisogno né della tua comprensione né tanto meno della tua compagnia. E ora và, e non farmelo ripetere».
Non dissi nulla, non feci niente. Pietrificata lo squadrai con occhi sgranati, rimanendo confusa e amareggiata sotto la pioggia scrosciante mentre senza aggiungere altro Dearan tornava a voltarsi adagio, ricominciando a camminare da solo verso la tempesta.
Tornando al campo lo trovai poco più popolato rispetto a quella mattina. Gli altri dovevano essersi alzati e messi già al lavoro da un po’ ma la forte pioggia sembrava averli spinti a preferire saggiamente mansioni da svolgere al coperto, al sicuro nei loro carri. Dalle finestre aperte o socchiuse di quasi tutti i carrozzoni filtrava la luce gialla e tremolante delle lanterne, necessaria al chiuso in una giornata così cupa.
Per tutta la strada del ritorno non avevo fatto altro che rimuginare su quanto era appena accaduto con Dearan, sentendomi sempre più avvilita per la mia stupidità. Era chiaro quanto lui
tenesse a quella cosa, lo era stato dal primo momento, glielo avevo letto negli occhi e in tutti quei piccoli e grandi segni legati al suo cambiamento d’atteggiamento; e allora perché mi ero comportata con così poco rispetto per le sue emozioni? Me lo domandai innumerevoli volte e innumerevoli volte non riuscii a rispondermi. Trovavo solo giustificazioni vuote e inutili, insufficienti per riuscire a capire. In realtà non avevo la più pallida scusante per il mio comportamento e la cosa mi bruciava. Tuttavia questo non era l’unico dei miei pensieri.
Mi fermai tornando a guardarmi indietro. Chissà dov’era Dearan, cosa stava facendo, a cosa stava pensando… Da quel momento mi avrebbe portato rancore? Ne ero quasi certa, ma ancora non sapevo quanto la mia idiozia fosse riuscita a compromettere il nostro rapporto. Di qualunque natura fosse.
Già, ora anche quello mi turbava. Cosa provavo per Dearan? Fino a quella mattina davanti a una domanda simile avrei risposto
niente, o al massimo avrei potuto sbilanciarmi accennando a “una flebile simpatia”, e invece adesso, dopo aver sentito quel pesante vuoto allo stomaco davanti al suo sguardo di profonda delusione, sapevo di non poterlo più negare. In qualche modo io e Dearan avevamo preso dimestichezza l’uno dell’altra tanto che ormai, in fondo in fondo, iniziavo a considerarlo…
«… Un amico».
Alzando il volto al cielo lasciai che le gocce mi colpissero senza oppormi, cercando così di lavar via almeno parte della mia malinconia.
'E un amico lo si ascolta e si cerca di capirlo, non lo si giudica né lo si tratta come ho fatto io'.
Fradicia da testa a piedi, i capelli appiccicati al viso molle di pioggia e un’aria da cane bastonato perfettamente intonata al mio morale, mi abbracciai stretta per trattenere i brividi – dovuti alla pioggia ma non solo – e iniziai a guardarmi distrattamente intorno, ritrovandomi a posare quasi subito la mia attenzione su qualcosa d’insolito non troppo distante.
A pochi passi dal carro di Jimbo i cavalli erano stati sistemati sotto una strana tettoia che li riparava dall’acquazzone. La tela spessa e i lunghi sostegni che formavano la struttura mi parvero subito famigliari, ma mi ci volle qualche momento per riconoscerli come quelli con cui da giorni condividevo l’alloggio. Erano loro: i pali e il telone stipati in un angolo del mio carro che Fergal era corso a prendere molti giorni prima, proprio durante un altro acquazzone.
Allora era a questo che servivano, pensai distogliendo per un salutare momento la mia mente da altre questioni.
Fu allora che, mettendo meglio a fuoco attraverso la pioggia, scorsi la figura accucciata accanto ai cavalli a riposo. Jimbo se ne stava lì, seduto sul suo basso sgabello accanto alle amate bestie, a riparo insieme a loro dalle intemperie. Forse attirato dal mio sguardo curioso alzò la testa dal blocchetto, guardandomi di rimando. Fissai i suoi occhi infossati per un istante, poi la mia attenzione scivolò inevitabilmente sul blocco di fogli tra le sue mani.
Quel blocco di fogli. Un intenso brivido di freddo e imbarazzo più forte degli altri mi arpionò la schiena in un istante. Senza nemmeno pensarci distolsi lo sguardo e abbassando il capo a passo lungo mi allontanai rapida.
A due carri di distanza un nitrito sconfortato mi ridestò e rialzando il volto mi ritrovai davanti Gartrag. A quanto pareva il nero stallone aveva deciso di non unirsi agli altri cavalli nel loro riparo contro la pioggia, preferendo invece starsene lì, sotto gli scrosci, impegnato a trottare impaziente in un continuo ondeggiare di coda e criniera. Si bloccò giusto per scrutarmi ombroso, sbuffò con forza dalle narici dilatate, e senza fare più caso a me ricominciò con il suo nervoso movimento circolare. A quanto pareva non ero l’unico essere inquieto da quelle parti.
Il mio carro era ormai a pochi passi, ma giunta davanti alla finestra di Fergal mi arrestai senza quasi pensarci. Dall’insolito camino che sbucava dal tetto un fumo chiaro saliva al cielo, confondendosi con le nuvole. L’aroma leggero di funghi marinati nelle spezie, mischiato a meraviglia con l’appetitosa fragranza del pane fresco, riempiva già l’aria tutto intorno, ma non fu questo a trattenermi. Fergal stava fischiettando, e sembrava così allegro e soddisfatto da riuscire a far star meglio anche me.
Ritrovandomi a sorridere mi asciugai distrattamente il viso dalle lacrime che sentii sfuggirmi, grata della presenza della pioggia provvidenziale per confonderle. Quella profonda malinconia mista al senso di colpa non sarebbe scomparsa tanto facilmente, ciò nondimeno adesso avevo un pensiero piacevole per provare ad ammorbidirla.
Pronta a rimettermi in cammino feci un primo passo, quando un formicolio alla base del collo – simile alla sensazione che prende quando ci si sente osservati – mi fece tentennare. D’istinto mi girai adagio e con un sussulto la vidi; Kamila se ne stava immobile dietro la finestra aperta del suo carro, i grandi occhi tristi impegnati a esaminarmi, saldissimi e duri.
Spiazzata mi bloccai lì dov’ero, e anche se non sapevo quanto fosse saggio o giusto, combattendo contro la pioggia che m’annebbiava la vista ricambiai esitante il suo sguardo. Forse era stupido da parte mia ma non volevo cedere, convinta che in quel modo le sarei sembrata colpevole o distante, così anche per questo prima di accorgermene mi ritrovai ad abbozzare un sorriso.
Kamila socchiuse le labbra, e non so quanto fu merito mio ma vidi chiaramente la sua freddezza vacillare. I lineamenti duri s’ammorbidirono, le labbra rigide si distesero e gli occhi intensi si addolcirono, sciogliendosi in un’espressione di profonda e docile infelicità. Quella che avevo davanti era la vera Kamila. Quella che avevo davanti era la Kamila ritratta da Jimbo.
Toccata dalla sua sofferenza lasciai cadere le braccia, rimaste a cingermi fino ad allora, e completamente dimentica dell’acquazzone mi girai totalmente verso di lei, muovendole un solo passo incontro. Avrei voluto trasmetterle tutta la mia vicinanza, speravo dai miei occhi potesse trasparire ogni briciola di quella comprensione che stavo provando, ma con ogni probabilità fallii perché Kamila sospirò appena, annuì mesta, e con una lentezza innaturale richiuse la finestra tra noi, lasciandomi lì fuori da sola con le spalle basse, impegnata a fissare non so per quanto tempo quell’imposta serrata sotto una pioggia monotona.
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