Limiti massimi della carcerazione preventiva nel mandato d'arresto europeo
Cassazione , SS.UU. penali, sentenza 05.02.2007 n° 4614CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE
SENTENZA 5 febbraio 2007, n. 4614
(Pres. Lupo- est. Conti)
FATTO
1. Il 13 marzo 2006 il Pretore (Richter am Amtsgericht) di Hanau (Germania) emetteva mandato di arresto europeo (MAE) nei confronti di R. V., cittadino serbo della regione del Kosovo, sulla base di un mandato di cattura (Haftbefehl) del 27 febbraio 2006, emesso nel corso delle indagini dal medesimo Pretore per il reato di tentato omicidio, punito dalla legislazione tedesca (artt. 211, 22 e 23 del codice penale) con la pena da 15 anni di reclusione all’ergastolo.
Nel mandato si precisava che il R. era fortemente sospettato di avere il 22 dicembre 2005, spinto da bassi motivi, tentato di uccidere a Biebergemünd–Witheim l’ex fidanzata Manuela Schubert, pugnalandola più volte alle spalle dopo averla inseguita e ferendola ad un polmone, alla cassa toracica e alle braccia, con notevole perdita di sangue.
2. La Corte di appello di Lecce emetteva in data 14 marzo 2006 ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico del R..
In tale ordinanza si precisava che il R. era stato già tratto in arresto in Italia ad opera della polizia giudiziaria in base alla segnalazione del medesimo nel sistema SIS, in relazione al citato mandato di cattura del Pretore di Hanau. Il provvedimento di convalida dell’arresto emesso dal presidente della Corte di Lecce aveva perso tuttavia efficacia, poiché nel termine di dieci giorni non erano pervenuti alle autorità italiane né il mandato d'arresto europeo né copia della segnalazione della persona nel SIS completa di tutti gli elementi richiesti.
3. Successivamente, in data 17 marzo 2006, le autorità tedesche inviavano il mandato di cattura emesso dalla Pretura di Hanau il 27 febbraio 2006, dal quale risultava, oltre alla descrizione dei fatti come riportata nel MAE, che il R. era fortemente sospettato sulla base di una serie di testimonianze, indicate mediante il riferimento ai nominativi dei dichiaranti (la parte lesa, il fratello, un ispettore di polizia ed un medico di una clinica), e che esistevano “motivi di carcerazione” a causa della fuga già attuata dall’accusato subito dopo il fatto e del pericolo che questi potesse sottrarsi al processo “dandosi alla fuga o scomparendo dalla circolazione”.
4. Con sentenza in data 7 aprile 2006, letta contestualmente, la Corte di appello di Lecce disponeva la consegna del R. alla autorità giudiziaria richiedente, ritenendo soddisfatte le condizioni richieste dalla legge italiana.
In particolare, la Corte, escludeva la ricorrenza della condizione ostativa di cui all’art. 18 lettera e) della legge 18 aprile 2005, n. 69, richiamata dalla difesa in una memoria scritta, osservando che spettava alla parte interessata “formalmente eccepire la mancanza nella legislazione dello Stato richiedente la consegna di un termine massimo di carcerazione preventiva”, mentre nel caso di specie era stata soltanto prospettata la “mera eventualità della mancanza di siffatto termine”, non essendo pertanto necessari ulteriori accertamenti. Nel merito, la Corte riteneva sussistenti sufficienti indizi di colpevolezza sulla base delle testimonianze riassunte nel mandato di cattura.
5. Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione, con atto depositato il 18 aprile 2006, l’avv. Federico Mazzarella De Pascalis, difensore di fiducia del R., chiedendone l’annullamento, con rigetto della richiesta di consegna e conseguente scarcerazione “dell’indagato”.
Deduceva a motivi la esistenza di una serie di condizioni ostative alla consegna a causa:
1) della mancanza agli atti della copia integrale, autentica e con traduzione “del provvedimento restrittivo”, come prescritto dall’art. 6 comma 3 legge n. 69 del 2005;
2) della mancata verifica dell’esistenza di limiti massimi della carcerazione preventiva nella legislazione dello Stato di emissione, ai sensi dell’art. 18 lett. e) della medesima legge;
3) della mancanza di motivazione del provvedimento cautelare in base al quale il mandato d'arresto europeo era stato emesso, in violazione dell’art. 18, lett. t) della medesima legge;
4) della mancanza delle assicurazioni richieste dall’art. 19 lett. a) della medesima legge, affinché fosse garantita la possibilità di partecipare alla formazione del provvedimento restrittivo.
6. Con una memoria datata 19 giugno 2006, il ricorrente rilevava che in atti era presente soltanto una mera “tabella riassuntiva” del provvedimento restrittivo, mentre l’art. 6 comma 3 l. cit. richiedeva la trasmissione quantomeno di una copia conforme del provvedimento originale. Detta omissione, ad avviso del ricorrente, oltre a costituire condizione di per sé ostativa alla consegna, era rilevante anche sotto ulteriori profili. Invero, mancando il provvedimento originario, i dati riportati nella suddetta tabella risultavano insufficienti a soddisfare il requisito richiesto dall’art. 6 comma 4 l. cit. a pena di inammissibilità della richiesta di consegna, della “indicazione delle fonti di prova”. Nel ricordare la recente giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, il ricorrente sottolineava come il controllo affidato all’autorità giudiziaria italiana, senza spingersi in una nuova pregnante valutazione delle fonti di prova analoga a quella spettante nell'ordinamento interno al tribunale del riesame, dovesse avere comunque ad oggetto la sussistenza di una motivazione in ordine al provvedimento cautelare in base al quale era stato emesso il mandato di arresto europeo ed alle esigenze cautelari che si assumevano in esso sussistenti, nonché in ordine agli elementi di prova su cui era basato il mandato (Sez. Feriale, n. 33642, 13 settembre 2005, dep. 14 settembre 2005, Hussain). Nel caso di specie nella citata tabella era stata riportata soltanto la descrizione dei fatti, senza l’indicazione di alcun indizio o fonte di prova in ordine all’assunto accusatorio. Ciò avrebbe impedito al giudice nazionale di effettuare una anche minima valutazione sulla formale esistenza della motivazione del provvedimento restrittivo.
Lamentava inoltre che dalla citata tabella non era dato desumere la natura e il grado del provvedimento restrittivo (ovvero se si trattasse di sentenza esecutiva, di un provvedimento cautelare o di qualsiasi altra decisione giudiziaria esecutiva che avesse la stessa forza) né l’ufficio giudiziario che lo aveva emesso, con conseguente violazione dell’art. 6 comma 1, lett. c), l. cit.
7. Alla udienza del 31 maggio 2006, la Sesta sezione penale della Corte di cassazione, cui il ricorso era stato assegnato, richiedeva all’autorità giudiziaria dello Stato emittente, per il tramite del Ministero della giustizia, la documentazione relativa all’esistenza nell’ordinamento tedesco di limiti massimi di custodia cautelare.
In risposta a tale richiesta, la Direzione centrale della Polizia criminale il 14 giugno 2006 trasmetteva al Ministero della giustizia una comunicazione inviata dal S.I.R.E.N.E. tedesco all’ufficio del pubblico ministero di Hanau, secondo cui: sulla base del codice di procedura penale tedesco, non esiste un “limite massimo per la carcerazione preventiva”; questa può essere disposta per una durata superiore ai sei mesi solo se “speciali difficoltà o circostanze speciali delle indagini o un’altra importante ragione” non consentano “la decisione da parte di una Corte”; il controllo e la decisione “sulla durata della carcerazione preventiva” spetta alla “Alta Corte regionale”, alla quale devono essere presentati i fascicoli del caso prima della scadenza dei sei mesi. E allegava il testo integrale, corredato di traduzione, degli artt. 121 e 122 del codice di procedura penale tedesco.
Il Ministero della giustizia, a mezzo telefax, trasmetteva detta documentazione alla Sesta sezione della Corte di cassazione con nota in data 3 luglio 2006.
8. All’esito di tale acquisizione, il ricorrente con una ulteriore memoria rilevava preliminarmente che la documentazione era stata inviata solo in data 3 luglio 2006, e quindi oltre il termine di trenta giorni di cui all’art. 16 della legge n. 69 del 2005. cit., previsto “a pena di rifiuto della consegna”.
Sosteneva inoltre nel merito che da essa si evinceva chiaramente che l’ordinamento tedesco consente il mantenimento della carcerazione preventiva oltre il termine ordinario di sei mesi senza la previsione di un limite temporale né di fase né complessivo e che doveva perciò trovare applicazione la previsione del rifiuto di consegna di cui all’art. 18 lett. e) l. cit.
9. Alla udienza del 2 ottobre 2006, il Procuratore generale chiedeva di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 6, comma 3, 17, comma 4, e 18 lett. e) della legge 22 aprile 2005, n. 69, in riferimento agli artt. 3 e 11 della Costituzione, e, in subordine, il rigetto del ricorso.
10. Con ordinanza emessa all’esito dell’udienza (dep. il 23 novembre 2006), il Collegio rimetteva il ricorso alle Sezioni unite, ai sensi dell'art. 618 c.p.p., avendo rilevato un potenziale contrasto giurisprudenziale in ordine all’interpretazione dell’art. 18 lett. e) l. cit.
Osservava la Sesta sezione che detta norma contiene una peculiare condizione ostativa alla consegna di un imputato o di un condannato raggiunto da un mandato di arresto europeo, non contemplata non solo dalla decisione-quadro del Consiglio dell'Unione europea del 13 giugno 2002 - nella quale si affermava peraltro che “l’obiettivo dell’Unione di diventare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia comporta la soppressione dell'estradizione tra Stati membri e la sua sostituzione con un sistema di consegna tra autorità giudiziarie” e che “l'introduzione di un nuovo sistema semplificato di consegna delle persone condannate o sospettate, al fine dell'esecuzione delle sentenze di condanna in materia penale o per sottoporle all'azione penale, consente di eliminare la complessità e i potenziali ritardi inerenti alla disciplina attuale in materia di estradizione” - ma neppure dalla procedura estradizionale, come regolata dalla Convenzione europea del 13 dicembre 1957.
Il Collegio ricordava che la stessa Sesta sezione della Corte aveva già avuto modo di pronunciarsi sui complessi problemi posti dalla citata norma con la recente sentenza n. 16542 dell’8 maggio 2006, ric. Cusini, in riferimento ad una richiesta di consegna formulata dall’autorità giudiziaria del Belgio, nel cui ordinamento non sono previsti termini massimi di carcerazione preventiva ma soltanto, per reati puniti con pena superiore ad un anno di reclusione, l'esame in camera di consiglio da parte della giurisdizione d'istruzione, una prima volta entro il quinto giorno dall'arresto e, successivamente, con cadenza mensile e “nel rispetto della ragionevole durata prevista dall'art. 5, comma 3, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali”. In questa pronuncia – rilevava il Collegio - la Corte, pur consapevole delle diverse scelte operate dagli ordinamenti europei per garantire la ragionevole durata della detenzione preventiva (art. 5, par. 3, CEDU) e del positivo vaglio ricevuto dalla Corte di Strasburgo anche di quelli imperniati su sistemi di frequenti e ravvicinate verifiche, aveva escluso la possibilità di ritenere soddisfatto il requisito posto della lettera e) dell’art. 18 attraverso modelli “equipollenti”, avendo il legislatore scelto di assumere la disciplina italiana della custodia cautelare come “esclusivo parametro di riferimento”. Invero, l’art. 18 citato, richiamando le parole dell’art. 13 quinto comma Cost., avrebbe posto un “ostacolo insormontabile” ad ogni interpretazione sistematica e razionalizzatrice della legge, rendendo inoltre inapplicabile il principio di “interpretazione conforme” al diritto comunitario, in quanto “l'obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una decisione-quadro nell'interpretazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale cessa quando quest'ultimo non può ricevere un’applicazione tale da sfociare in un risultato compatibile con quello perseguito dalla decisione-quadro”. Tale norma avrebbe infine reso impercorribile anche la strada della verifica di costituzionalità della norma da parte della Corte costituzionale, in considerazione sia della letterale riproduzione in essa del dettato dell’art. 13 quinto comma 5 Cost. sia del lasso di tempo necessario alla verifica costituzionale, incidente sulla libertà personale del soggetto imputato.
Secondo la Sezione rimettente, in alternativa a questa soluzione interpretativa, potrebbe invece privilegiarsi una diversa esegesi della norma, “meglio rispondente tanto alle indicazioni provenienti dalla decisione–quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002 quanto alle premesse di fondo di carattere politico, istituzionale e culturale di tale decisione e della legge nazionale che le ha dato attuazione”.
A tal fine, rileverebbero le considerazioni che figurano nella parte iniziale della decisione-quadro, nelle quali si è affermato che “il meccanismo del mandato d'arresto europeo si basa su un elevato livello di fiducia tra gli Stati membri (Considerando n. 5, recte n. 10)” e che il deliberato del Consiglio “rispetta i diritti fondamentali ed osserva i principi sanciti dall'articolo 6 del trattato sull'Unione europea e contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, segnatamente il capo VI (Considerando n. 12)”.
Secondo il Collegio, l’elevato “livello di fiducia” esistente tra gli Stati membri, sul quale poggia l’intero meccanismo del mandato di arresto europeo, sembrerebbe aprire la via ad un’interpretazione dell’art. 18 lettera e) della legge n. 69 del 2005 che, per risultare realmente conforme al diritto comunitario ed alla sua aspirazione di fondo (dar vita cioè a discipline giuridiche “unitarie” nel rispetto delle particolarità culturali ed istituzionali di ciascuno Stato membro), deve ammettere una valutazione “per equivalente” dei diversi sistemi di custodia cautelare in carcere e dei loro limiti temporali. In altri termini, la premessa dalla quale avrebbe tratto origine il nuovo sistema di consegna sarebbe stata quella della “equivalente” e “comparabile” attitudine degli ordinamenti degli Stati membri, pur nelle diversità e varietà di procedure modellate dalla storia e dalla cultura giuridica di ciascuno, a “garantire i soggetti custoditi dalla prospettiva […] di una detenzione precedente il processo destinata a prolungarsi irragionevolmente nel tempo”. Ciò significherebbe, pertanto, che la menzione contenuta nella lettera e) dell’art. 18 di limiti massimi della carcerazione preventiva non postulerebbe una – inesistente ed irrealistica – identità o perfetta omogeneità dei sistemi in vigore nei diversi Stati membri, quanto piuttosto un “rigoroso parametro di valutazione, imponendo all’autorità giudiziaria di rifiutare la consegna tutte le volte che il sistema di custodia cautelare in carcere dello Stato richiedente non fornisca – in ragione delle norme che lo regolano e delle prassi di loro applicazione – una garanzia ritenuta “equivalente” a quella offerta dal nostro ordinamento attraverso il sistema dei limiti massimi di custodia”. In questa prospettiva, spetterebbe dunque al giudice nazionale la “verifica in concreto del livello di garanzie offerte dallo Stato richiedente” (raffrontando complessivamente il suo “sistema di garanzia”) e la valutazione della loro idoneità ad offrire una garanzia assimilabile a quella assicurata nel nostro ordinamento dal meccanismo dei limiti massimi di custodia predeterminati dal legislatore.
Siffatta lettura della norma in esame non risulterebbe ostacolata dal fatto che essa riproduce parzialmente il testo dell’art. 13 quinto comma Cost., dato che la statuizione della fissazione ad opera della legge di limiti massimi della custodia carceraria, se costituisce un valore assoluto nel contesto nel nostro ordinamento, non varrebbe ad escludere la possibilità di riconoscere che altri ordinamenti contengano previsioni diverse ma egualmente, se non maggiormente, rispettose del valore fondamentale della tutela della libertà personale da forme di detenzione suscettibili di prolungarsi irragionevolmente e senza limiti, in assenza di un efficace sistema di controlli e confini temporali.
Ulteriori elementi a favore della suesposta tesi sono individuati dal Collegio rimettente anche nella normale irrilevanza di analoga preclusione nell’ambito della procedura estradizionale regolata dalla Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, e nelle notevoli conseguenze derivanti dall’adesione alla linea interpretativa contraria. Conseguenze consistenti non soltanto nella declaratoria di parziale inefficacia del meccanismo del mandato di arresto europeo, ma soprattutto nella preclusione della consegna di persone indiziate di gravi reati verso un gran numero di Stati dell’Unione di elevata civiltà giuridica e nei cui confronti il nostro Stato nutre un elevato livello di fiducia, che fondano le garanzie di contenimento temporale e di ragionevole durata della carcerazione preventiva su di un sistema non di limiti massimi di custodia preventiva, ma di ravvicinati ed efficienti controlli giudiziali.
11. Il giorno precedente alla odierna udienza, l’avv. Mazzarella De Pascalis ha fatto pervenire “memorie aggiunte” con le quali, ripercorrendo i passaggi argomentativi salienti della ordinanza di rimessione alle Sezioni unite della Sesta sezione, insiste sul motivo di impugnazione incentrato sulla previsione ostativa di cui all’art. 18 lettera e) della legge n. 69 del 2005, evidenziando come, con essa, il legislatore nazionale, riproducendo il disposto dell’art. 13 quinto comma Cost. e richiamando espressamente (art. 2 della legge) i “principi e le regole contenuti nella Costituzione della Repubblica attinenti al giusto processo, ivi compresi quelli relativi alla tutela della libertà personale”, avrebbe chiaramente inteso escludere che meccanismi di controllo diversi dalla previsione di precisi termini di durata della custodia cautelare, legalmente stabiliti, potessero essere ritenuti compatibili con la procedura di consegna del soggetto interessato dal MAE: il tutto, in un’ottica di riequilibrio rispetto all’abolizione del controllo politico sulle procedure estradizionali.
Insiste inoltre sulle restanti censure.
DIRITTO
1. Il contrasto segnalato.
Oggetto del contrasto potenziale segnalato dalla Sesta sezione è:
“Se, in materia di mandato d’arresto europeo, la previsione contenuta nell’art. 18 lett. e) legge 22 aprile 2005, n. 69, che fa derivare il rifiuto della consegna dell’estradando dalla mancanza, nella legislazione dello Stato membro di emissione (nella specie la Repubblica Federale Tedesca), dei limiti massimi della ‘carcerazione preventiva’, debba essere considerata in termini restrittivi oppure possa essere valutata in concreto, verificando di volta in volta se il sistema di custodia cautelare dello Stato membro dell’U.E. fornisca una garanzia ‘equivalente’ a quella offerta dal nostro ordinamento attraverso il regime dei limiti massimi di custodia, prendendo in considerazione anche istituti diversi, comunque funzionali ad un effettivo controllo e limitazione della carcerazione preventiva”.
Innanzi tutto è però opportuno prendere in esame gli ulteriori motivi di ricorso, che appaiono manifestamente infondati.
2. Va in primo luogo rilevato che, contrariamente a quanto dedotto con il primo motivo, è stato acquisito l’integrale provvedimento di cattura emesso dall’autorità giudiziaria tedesca (Pretore di Hanau) in data 27 febbraio 2006, sia nella versione originale in lingua tedesca sia nella traduzione in italiano.
Il ricorrente, di madre lingua albanese, si duole che esso non sia stato tradotto, ma non precisa in quale lingua. Ora, se è intuibile che ritenga per lui non appagante la traduzione in italiano – posto che, come si ricava dagli atti (v. in particolare nota in data 15 marzo 2006 dell’Ufficio Matricola della Casa circondariale di Lecce), il R. non comprende tale lingua –, egli non assume però di non comprendere la lingua tedesca, e tale circostanza oltre a non risultare aliunde, deve comunque essere ragionevolmente esclusa, atteso che il R. risiedeva in Germania ed era fidanzato con una cittadina tedesca, che risulta essere la vittima del tentato omicidio contestatogli. Inoltre, dalla relata di notifica dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Corte di appello in data 14 marzo 2006 (fol. 32) risulta che il R. non sa “leggere” la lingua albanese, tanto che le comunicazioni ex art. 94 disp. att. c.p.p. si sono svolte in lingua tedesca.
Quanto al fatto che il provvedimento di cattura in questione non sia stato trasmesso in copia autentica, devono richiamarsi le condivisibili osservazioni svolte dalla Sesta sezione penale di questa Corte nella sentenza n. 16542 emessa alla c.c. dell’8 maggio 2005, ric. Cusini, secondo cui, in tema di mandato di arresto europeo, nessuna disposizione di legge (e in particolare il richiamato art. 6 comma 3 l. n. 69 del 2005) prevede l’acquisizione del provvedimento cautelare (o di ogni atto proveniente dall’autorità estera) in copia autentica, e che non può farsi questione circa la conformità della copia all’originale una volta accertato che, come nella specie, la copia è stata trasmessa in via ufficiale dall’autorità giudiziaria emittente al Ministero della giustizia, organo deputato alla “ricezione amministrativa dei mandati d’arresto europei e della corrispondenza ufficiale ad essi relativa” (art. 4 comma 2 l. n. 69 del 2005).
Al riguardo è il caso di ricordare che tale principio è stato costantemente affermato sia in materia estradizionale (v. ad es. Cass., sez. I, c.c. 10 giugno 2005, Mazzarella) sia - pur dopo le modifiche introdotte all’art. 729 c.p.p. dalla legge 5 ottobre 2001, n. 367 - in materia di rogatorie internazionali (tra le altre, Cass., sez. VI, u.p. 4 maggio 2006, Acampora; Id., u.p. 22 settembre 2004, Cuomo; Cass., sez. IV, u.p. 19 febbraio 2004, Montanari); ed è stato ritenuto non eccepibile anche dalla giurisprudenza costituzionale (tra le altre, ordd. nn. 78 del 2004; 68 del 2003; 487 e 315 del 2002).
Con riferimento al terzo motivo, va osservato che dal MAE dell’autorità giudiziaria tedesca, integrato dalla documentazione dalla stessa trasmessa, e in particolare dal provvedimento cautelare originario, si desumono chiaramente le fonti indiziarie, che ragionevolmente sono state ritenute integranti gravi indizi di colpevolezza, posto che la vittima del tentato omicidio è la fidanzata del R.; che varie dichiarazioni testimoniali anche di fonte diretta, tra le quali quelle della persona offesa, indicano il medesimo come l’autore dell’aggressione; che il R. si è dato alla fuga subito dopo il fatto, scomparendo dalla circolazione e trasferendosi poi in Italia.
Tali elementi sono ampiamente idonei a sorreggere la richiesta di consegna, alla stregua dei consolidati principi affermati in materia dalla giurisprudenza di legittimità. L’autorità giudiziaria italiana, ai fini della “riconoscibilità” del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza, deve infatti limitarsi “a verificare che il mandato sia, per il suo contenuto intrinseco o per gli elementi raccolti in sede investigativa, fondato su un compendio indiziario che l’autorità giudiziaria emittente ha ritenuto seriamente evocativo di un fatto-reato commesso dalla persona di cui si chiede la consegna”, giacché “il presupposto della ‘motivazione’ del mandato di arresto cui è subordinato l’accoglimento della domanda di consegna (artt. 1 comma 3 e 18 comma 1, lett. t, della legge n. 69 del 2005), non può essere strettamente parametrato alla nozione ricavabile dalla tradizione giuridica italiana (esposizione logico-argomentativa del significato e delle implicazioni del materiale probatorio)”. Occorre dunque rilevare soltanto che “l’autorità giudiziaria di emissione dia ‘ragione’ del mandato di arresto, il che può realizzarsi”, come è nella specie, “anche attraverso la puntuale allegazione delle evidenze fattuali a carico della persona di cui si chiede la consegna”, realizzandosi in ciò il “controllo sufficiente” demandato all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione dal Considerando n. 8 della decisione-quadro (in questi termini, Cass., sez. VI, c.c. 23 settembre 2005, Ilie Petre, seguita da molte altre decisioni conformi).
Appare poi palesemente incongruo il richiamo operato dal ricorrente, con il quarto motivo, al disposto dell’art. 19 lett. a) della legge n. 69 del 2005, che si riferisce alla ipotesi di MAE “emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza comminate [recte, inflitte] mediante decisione pronunciata in absentia”, per nulla pertinente al caso di specie, relativo, invece, a un provvedimento cautelare emesso dall’autorità giudiziaria tedesca nel corso delle indagini relative al fatto-reato di cui in premessa.
La censura sollevata nella memoria depositata dal difensore del ricorrente successivamente alla trasmissione della documentazione integrativa da parte dell’autorità giudiziaria tedesca (v. retro, par. 8 del “Fatto”) è destituita di fondamento sia in fatto sia in diritto.
Sotto il primo profilo, va osservato che, come si desume dalle attestazioni formali, la documentazione è stata inviata dall’autorità tedesca il 13 giugno 2006, e quindi ampiamente entro il termine di trenta giorni decorrente dalla ordinanza del 31 maggio della Sesta sezione; a nulla rileva che, per meri ritardi amministrativi, la stessa sia stata fatta pervenire alla Corte di cassazione dal Ministero della giustizia il 3 luglio successivo.
Ma è opportuno affermare, in linea di diritto, che se l’autorità giudiziaria richiedente non stabilisce alcun termine entro il quale la documentazione deve essere prodotta, è irrilevante il fatto che tale adempimento sia soddisfatto oltre il termine di trenta giorni, perché questo termine, previsto dall’art. 16 comma 2 l. n. 69 del 2005 rappresenta un limite temporale massimo di chiara natura ordinatoria diretto precipuamente a limitare (tenuto conto delle esigenze di celerità della procedura) il potere discrezionale dell’autorità giudiziaria italiana di differire la decisione, del cui rispetto non si può fare onere all’autorità estera (che non è certo obbligata direttamente dalla legge italiana) ove non le sia stata indicata alcuna scadenza temporale per il soddisfacimento della richiesta.
Solamente quando un termine, di trenta giorni o anche inferiore, sia stato precisato, e di esso sia stata resa edotta l’autorità estera, l’autorità giudiziaria italiana è legittimata, una volta trascorso il termine (decorrente peraltro, a lume di ragione, dal momento in cui la richiesta perviene all’autorità estera), a decidere allo stato degli atti.
Ma non è questo che nella specie si è verificato dal momento che la Sesta sezione con l’ordinanza del 31 maggio 2006, pur sottolineandone l’urgenza, non aveva stabilito alcun preciso termine per la trasmissione degli atti richiesti all’autorità tedesca, e l’udienza, rinviata a nuovo ruolo, era stata rifissata per il 13 luglio 2006 (a distanza di quarantatre giorni dalla data della ordinanza con la quale si richiedeva la documentazione) e quindi nuovamente fissata per il giorno 2 ottobre 2006, stante la dichiarata adesione del difensore all’astensione dalle udienze proclamata dall’Organizzazione unitaria dell’Avvocaura, alla quale aveva aderito il R. di persona.
E la documentazione richiesta all’autorità tedesca è pervenuta ben prima non solo di tale ultima udienza, ma anche di quella fissata all’esito del primo rinvio a nuovo ruolo. Sicché la Corte doveva necessariamente prenderne atto, senza che nessuna irregolarità o, tanto meno, decadenza potesse essere nella specie predicata.
3. Resta il secondo motivo di ricorso, oggetto del segnalato potenziale contrasto giurisprudenziale.
Il motivo è infondato.
4. L’art. 18 lett e) della legge 22 aprile 2005, n. 69.
La legge n. 69 del 2005 recante “Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione-quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002, relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri”, entrata in vigore il 14 maggio 2005), contempla, all’art. 18 lettera e), tra i casi di “Rifiuto della consegna” il seguente: “se la legislazione dello Stato membro di emissione non prevede i limiti massimi della carcerazione preventiva”.
La previsione è frutto di un emendamento presentato dal relatore, On. Pecorella alla Commissione Giustizia della Camera il 20 novembre 2003. Secondo il proponente, doveva ritenersi “inammissibile, in base ai nostri principi costituzionali, che una persona possa essere privata della libertà sine die, in assenza di una sentenza di condanna” (Relazione svolta in Assemblea, il 19 aprile 2004). Al Senato, il relatore Sen. Bobbio evidenziava la necessità che la previsione fosse ulteriormente specificata, con previsione di termini diversi a seconda delle varie fasi del processo, secondo il modello italiano (seduta del 14 settembre 2004). Tra le varie critiche espresse in sede parlamentare merita segnalare quelle dell’On. Sinisi (“ si sono scambiate le regole interne del nostro sistema giudiziario, che sono state richiamate come regole universali, con la presunzione di essere l’unico sistema effettivamente democratico in Europa”; Assemblea Camera, 6 maggio 2004) e del Sen. Fassone, che, presentando il suo emendamento soppressivo, dichiarava: “non è neppure ipotizzabile che uno Stato abbia la facoltà di sindacare sui limiti massimi di carcerazione preventiva previsti negli altri ordinamenti” (Senato, Commissione Giustizia, 13 ottobre 2004).
Con riferimento al richiamo fatto dal relatore ai “principi costituzionali” va ricordato che, a norma dell’art. 1 della legge n. 69, il provvedimento legislativo in questione attua le disposizioni della riferita legge-quadro “nei limiti in cui tali disposizioni non sono incompatibili con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali, nonché in tema di diritti di libertà e del giusto processo”.
Più esplicitamente, l’art. 2 della stessa legge contiene una clausola di salvaguardia dei “seguenti diritti e principi stabiliti dai trattati internazionali e dalla Costituzione: a) diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […], in particolare dall’art. 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza) e dall’art. 6 (diritto ad un processo equo) nonché dai Protocolli addizionali alla Convenzione stessa; b) i principi e le regole contenuti nella Costituzione della Repubblica, attinenti al giusto processo, ivi compresi quelli relativi alla tutela della libertà personale, anche in relazione al diritto di difesa e al principio di eguaglianza, nonché quelli relativi alla responsabilità penale e alla qualità delle sanzioni penali”.
La disposizione dell’art. 18 lettera e) indubitabilmente riecheggia quella dell’art. 13 quinto comma Cost., a tenore della quale “La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”.
Come è noto, il quinto comma è frutto di un emendamento dell’on. Murgia (approvato dall’Ass. costituente nella seduta del 10 aprile 1947). Come emerge inequivocabilmente dai lavori dell’Assemblea, sia il proponente sia gli altri oratori avevano di mira il contenimento della durata della custodia carceraria esclusivamente per la fase dell’istruttoria.
5. La decisione-quadro sul mandato di arresto europeo.
La decisione-quadro sul mandato di arresto europeo (2002/584/GAI, adottata a Lussemburgo il 13 giugno 2002)), prevede “Motivi di non esecuzione obbligatoria” (art. 3) e “Motivi di non esecuzione facoltativa” (art. 4), tra i quali non è formalmente compreso quello corrispondente alla previsione dell’art. 18 lett. e) della legge n. 69 del 2005.
In alcuni casi è previsto che la consegna sia condizionata ad alcune garanzie che l’autorità giudiziaria dello Stato di emissione deve fornire (art. 5).
In base all’art. 34 n. 2, lett. b), T.U.E., il Consiglio può “adottare decisioni-quadro per il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri”; che “sono vincolanti per gli Stati membri quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi”; esse “non hanno efficacia diretta”. Il valore delle decisioni-quadro è di conseguenza assimilabile a quello già assegnato alle direttive (non autoapplicative) dall’art. 249 terzo comma CE.
La decisione-quadro in esame introduce, in sostituzione della procedura estradizionale, un sistema semplificato di consegna di persone ricercate a fini di giustizia, attraverso un rapporto diretto tra le autorità giudiziarie degli Stati membri, relegando il ruolo delle autorità centrali alla mera assistenza pratica e amministrativa. Essa si colloca nell’ambito del c.d. “terzo pilastro” relativo alla cooperazione nel settore della giustizia penale, di cui tratta il Titolo VI del T.U.E., con la previsione di una “azione comune” diretta alla realizzazione del “ravvicinamento ove necessario delle normative degli Stati membri in materia penale” (art. 29), comprendente la “facilitazione della estradizione negli Stati membri” (art. 31 lett. b)) e “la garanzia delle compatibilità delle normative applicabili negli Stati membri, nella misura necessaria per migliorare la suddetta cooperazione” (art. 31 lett. c).
In questo contesto il mandato di arresto europeo “è una decisione giudiziaria emessa da uno Stato membro in vista della consegna da parte di un altro Stato membro di una persona ricercata ai fini dell’esercizio dell’azione penale o dell’esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privative delle libertà” (art. 1), che si basa “su un elevato livello di fiducia tra gli Stati membri”, tanto che la sua attuazione “può essere sospesa solo in caso di grave e persistente violazione da parte di uno Stato membro dei principi sanciti all’art. 6, par. 1, del Trattato sull’Unione europea, constatata dal Consiglio in applicazione dell’art. 7, par. 1, dello stesso trattato” (Considerando n. 10).
A fondamento di siffatta reciproca fiducia sta l’asseverazione che la decisione-quadro, esplicitamente, rispetta “i diritti fondamentali ed osserva i principi sanciti dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, segnatamente il capo VI” (Considerando n. 12; quasi alla lettera ribadito dall’art. 1, par. 3). A sua volta, l’art. 6 del T.U.E. si richiama ai “principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri” (par. 1), nonché ai “diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario” (par. 2); mentre il Capo VI della Carta dei diritti fondamentali (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), si compone degli artt. 47-50, rispettivamente, “Diritto a un ricorso effettivo a un giudice imparziale”, “Presunzione di innocenza e diritti della difesa”, “Principi della legalità e proporzionalità dei reati e delle pene”, “Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso fatto”.
Inoltre, secondo quanto dalla stessa previsto, la decisione-quadro “non osta a che gli Stati membri applichino le loro norme costituzionali relative al giusto processo, al rispetto del diritto alla libertà di associazione, alla libertà di stampa e alla libertà di espressione negli altri mezzi di comunicazione” (Considerando n. 12).
Anche per le decisioni-quadro vale tuttavia la regola della “interpretazione conforme”, analogamente a quanto previsto dall’art. 10 CE per gli strumenti comunitari (tra molte, Corte di giustizia sent. 16 giugno 2005, C 105/03, Pupino). Essa comporta che il giudice nazionale deve prendere in considerazione il diritto interno nel suo complesso per valutare se la norma considerata possa essere interpretata in senso conforme al risultato perseguito dalla decisione-quadro, con l’unico evidente limite dell’impossibilità della interpretazione contra legem del diritto interno, nei casi di accertata incompatibilità tra questo e la decisione-quadro.
La Commissione U.E., nell’ultima valutazione del 2006, ha rilevato che due terzi degli Stati membri avevano introdotto motivi di rifiuto non previsti dalla decisione-quadro, e anzi per tre Stati, tra cui l’Italia, si era andati in alcuni casi “al di là della decisione-quadro”. Nel precedente rapporto del 2005, si rilevava che alcuni Stati avevano posto clausole di salvaguardia di principi costituzionali, mentre il Considerando n. 12 fa salvi solo i principi “comuni” di cui all’art. 6 T.U.E.
6. La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, non impone la fissazione di termini rigidi di durata della custodia cautelare. In base all’art. 5 par. 3 ogni persona arrestata o detenuta in via cautelare deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice (o magistrato) e ha diritto “di essere giudicata entro un tempo ragionevole o di essere messa in libertà durante l’istruttoria” (v. anche art. 6 par. 1; nonché art. 9 par. 3 e art. 14 par. 3/c del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966).
Per la giurisprudenza CEDU, la condanna, anche se non definitiva, legittima il protrarsi della detenzione, che cessa pertanto di essere “cautelare” (v. art. 6 par. 1/a; sentenze Corte eur. 27 giugno 1968, Wemhof c. Rep. Fed. Tedesca; 24 giugno 1982, Van Droogenbroeck c. Regno del Belgio; 28 marzo 1990, B. c. Rep. Austriaca); e ciò in quanto la previsione dell’art. 5 par. 3, che si collega a quella dell’art. 5 par. 1/c, è riferibile solo alla custodia nella fase antecedente il giudizio di primo grado. Ai fini dell’osservanza di dette norme non si richiede la previsione di termini fissi di durata (a partire dalla sent. Corte eur. 27 giugno 1968, Wemhof, cit.), ma occorre, in una visione di eccezionalità della custodia carceraria ante judicium, che in concreto l’imputato sia portato al più presto in giudizio o sia altrimenti scarcerato: tanto che, ove anche siano stati rispettati i termini “massimi” di durata legalmente previsti, la eccessiva durata della custodia nel caso concreto può essere censurata in presenza di ritardi non giustificati (v. tra le altre sentt. 6 novembre 2003, Pantano c. Italia, n. 60851/00 ; 17 febbraio 2005, Sardinas Albo c. Italia, n. 56271/19 – relativa all’eccessivo prolungamento della detenzione cautelare a causa di regressione del procedimento “ratione loci” –; 4 maggio 2006, Michta c. Polonia, n. 13425/02).
La Commissione europea aveva già raccolto nel 2004 [SEC (2004) 1046 del 17 agosto 2004] il quadro della normativa europea e nazionale sulla custodia cautelare considerando generalmente eccessiva la durata della custodia cautelare nei paesi dell’Unione e ricordando che il Parlamento europeo aveva in più occasioni invitato gli Stati a porre in essere misure atte ad evitare che “vengano applicati tempi di detenzione inutilmente lunghi” (Risoluzione del 4 settembre 2002, par. 20). La Commissione osservava che in base alla CEDU la detenzione preventiva non dovesse eccedere un tempo ragionevole, senza peraltro che tale durata potesse essere quantificata “in un numero determinato di giorni, mesi o anni o in vari periodi di tempo in relazione alla gravità del reato”. In particolare, non era coperta da strumenti internazionali obbliganti gli Stati membri la predeterminazione “di termini massimi di custodia cautelare” .
D’altro canto il Consiglio d’Europa, nella sua recente Raccomandazione sull’uso della custodia preventiva (n. 13/2006 del 27 settembre 2006), presa in considerazione solo per la fase antecedente la sentenza di primo grado, sottolineava la primaria necessità che gli Stati si dotassero di sistemi di “continuous reviews” della perdurante necessità della custodia “at regular intervals”, reputando a tal fine insufficienti, i sistemi basati soltanto sulla previsione di “maximum periods” e pur dando atto che questi possano facilitare il soddisfacimento della esigenza del contenimento della durata della custodia.
Mentre, sul versante interno, la stessa Corte costituzionale ancora di recente non ha mancato di sottolineare che non può disconoscersi rilievo all’esigenza di «attuare in modo migliore l'adeguatezza e la proporzionalità della custodia cautelare rispetto al reato per cui concretamente si procede» (sent. 223 del 2006).
7. Raffronto tra l’art. 18 lett. e) della legge n. 69 del 2005 e la decisione-quadro.
Traendo le fila da questo composito quadro normativo, giurisprudenziale e applicativo, va in primo luogo considerato se e in quali limiti previsioni di casi di rifiuto della consegna contenuti nella legge nazionale n. 69 del 2005 possano dirsi in contrasto con la decisione-quadro relativa al MAE adottata dal Consiglio dell’Unione europea il 13 giugno 2002.
Un preliminare rilievo è nel senso che vi è una sostanziale consonanza tra le enunciazioni circa l’esigenza del rispetto dei diritti fondamentali contenute nella legge n. 69 e nella decisione-quadro; e, più concretamente, che i valori su cui si fondano le “Disposizioni di principio” (art. 1) e le “Garanzie costituzionali” relative ai diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU(art. 2 lett. a) trovano corrispondenza in quelli richiamati dalla decisione-quadro.
Solo apparentemente più problematico, in quanto riferito a specifici aspetti desunti dall’ordinamento costituzionale interno, è il richiamo fatto dalla legge nazionale ai principi e alle regole “contenuti nella Costituzione della Repubblica” (art. 2 lett. b). Ma esso, per come poi concretamente circoscritto, appare esprimere l’esigenza di tutela di valori che sono comune patrimonio della civiltà giuridica europea. E al riguardo va sottolineato che, come si è già notato, in base a una sorta di interpretazione autentica espressa nel Considerando n. 12, la decisione-quadro “non osta a che gli Stati membri applichino le loro norme costituzionali relative [tra l’altro] al giusto processo”.
Certamente, in un contesto di cooperazione giudiziaria europea, sarebbe arbitrario ergere ogni previsione costituzionale interna a parametro della legalità della richiesta di consegna, e in proposito non può che convenirsi, in linea di principio, con i rilievi espressi dalla Commissione U.E., secondo cui alcuni Stati, tra cui viene menzionata l’Italia, hanno posto clausole di salvaguardia di principi costituzionali propri del loro ordinamento, mentre il Considerando n. 12 fa salvi solo i principi “comuni” di cui all’art. 6 T.U.E.
Quindi, un problema di dissonanza tra le scelte del legislatore nazionale e le linee della decisione-quadro può porsi solo relativamente ai casi in cui la legge n. 69 abbia eventualmente introdotto preclusioni alla consegna non riferibili alle garanzie sul giusto processo richiamate dalla decisione-quadro, e a maggior ragione qualora tali preclusioni non trovino corrispondenza neppure negli stessi enunciati di principio contenuti nella legge interna; con la precisazione, tuttavia, che non ogni mancanza di adempimenti richiesti all’autorità dello Stato di emissione determina necessariamente il rifiuto della consegna secondo la legge n. 69, dato che i casi di rifiuto sono da questa analiticamente indicati negli artt. 6 comma 3, 7 e 18 (v. Cass., sez. VI, c.c. 21 novembre 2006, Arturi).
Venendo al caso specifico, va rilevato che, come già precisato, l’art. 6 T.U.E., cui fa espresso rinvio la decisione-quadro, si richiama ai “principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri” (par. 1), nonché ai “diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario” (par. 2).
Appare dunque indiscutibile che il tema delle condizioni entro cui una persona può essere sottoposta a detenzione preventiva e della durata di questa entrino a pieno titolo nella materia dei diritti fondamentali garantiti in ogni ordinamento democratico e, in particolare, di quelli riconosciuti unanimemente dagli ordinamenti dei paesi dell’Unione europea, tutti impegnati al rispetto della Convenzione dei diritti dell’uomo di Roma del 1950, il cui art. 5 è dedicato proprio al “Diritto alla libertà e alla sicurezza”.
Più specificamente, quanto alla durata della custodia preventiva, va considerato che l’esigenza di adeguate garanzie circa il contenimento di questa entro “tempi ragionevoli” discende dall’art. 5 par. 3 CEDU, da leggere in collegamento con la previsione dell’art. 6 par. 1 sul “termine ragionevole” previsto per la vocatio in judicium.
Si è già osservato che la custodia preventiva (o cautelare) presa in considerazione dalla CEDU è solo quella relativa alla fase antecedente il giudizio di primo grado, essendo l’esigenza di garanzia in termini di durata del tutto diversa una volta che l’imputato sia stato riconosciuto colpevole e condannato a una pena detentiva, sia pure non definitiva; e che la giurisprudenza CEDU ai fini dell’osservanza di dette norme non richiede necessariamente la previsione di termini fissi di durata, ma solo che l’ordinamento e la prassi processuale assicurino in concreto che l’imputato sia portato al più presto in giudizio o sia altrimenti scarcerato.
Il fatto che, nell’ordinamento italiano, i limiti di durata della custodia cautelare siano stati ritenuti cogenti sino alla sentenza definitiva, in stretto collegamento con la presunzione di non colpevolezza, vigente, ex art. 27 Cost., sino a tale estremo (cfr. C. cost. n. 64 del 1970, punto 3 del Diritto), evidenzia la non “esportabilità” delle ragioni costituzionali che presidiano nel nostro ordinamento un sistema di termini massimi “complessivi” in altri ordinamenti che non sono tenuti ad osservare il medesimo principio se non fino alla “sentenza di condanna”.
La utilizzazione delle parole usate nel quinto comma dell’art. 13 Cost. consente perciò, in assenza di ogni richiamo alla forza cogente dell’art. 27, di ritenere compatibile con esse un sistema di controlli limitati alla fase che precede la pronunzia di merito sulla fondatezza dell’accusa.
E’ peraltro significativo che nell’anno 2004 la Commissione europea, richiamandosi a una Risoluzione del Parlamento, abbia invitato gli Stati U.E. a porre in essere misure atte ad evitare che “vengano applicati tempi di detenzione inutilmente lunghi”; e che il Consiglio d’Europa, nella sua recente Raccomandazione del 27 settembre 2006, abbia sottolineato non solo la primaria necessità che gli Stati si dotino di sistemi di “continuous reviews” della perdurante necessità della custodia “at regular intervals”, ma anche l’utilità, sia pure non imprescindibile, dell’ancoraggio della custodia a cadenze temporali predeterminate (“maximum periods”).
Un caso di rifiuto che dipenda dalla mancata previsione nella legislazione dello Stato richiedente di verificabili limiti al protrarsi della custodia preventiva ante judicium, pur non essendo esplicitamente indicato dalla decisione-quadro (v. artt. 3 e 4), non può dunque dirsi per ciò solo non consentito o in contrasto con essa, perché si ispira a garanzie fondamentali del processo richiamate dalla stessa decisione ed è coerente con la sempre maggiore sensibilizzazione al tema mostrata in questi ultimi anni sia dalla giurisprudenza sia dalle altre istituzioni europee. Non può quindi essere condivisa l’obiezione, priva di autonomo valore, per cui in tal modo verrebbe ad essere aggiunta una condizione che non era prevista dalla Convenzione europea di estradizione.
Anche perché, come si è avvertito, è la stessa decisione-quadro ad autorizzare gli Stati membri ad ampliare il catalogo delle ipotesi di non esecuzione del MAE in tutti i casi in cui siano implicate norme costituzionali relative al “giusto processo”, sia pure inteso nella sua dimensione sovrannazionale (Considerando n. 12, seconda parte); e si è anche notato come la materia della libertà personale dell’imputato è senza dubbio pertinente a tale tema, dato lo stretto collegamento intercorrente tra gli artt. 5 e 6 CEDU.
L' ''elevato livello di fiducia'' tra gli Stati dell’Unione posto a ragione giustificatrice del sistema del MAE (Considerando n. 10), con la conseguente soppressione del controllo politico (Considerando n. 9) e il superamento del regime estradizionale (Considerando n. 11), non elimina, ma anzi postula, l’esigenza di un “controllo sufficiente” (Considerando n. 8) da parte dell’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, in un contesto di progressiva adesione all’U.E. di Stati formatisi su realtà civili ed economiche e su storie politiche e istituzionali spesso sensibilmente distanti da quelle caratterizzanti i paesi dell’Europa occidentale.
Peraltro, a quanto risulta, le legislazioni di gran parte degli Stati dell’Unione prevedono termini temporalmente definiti di custodia preventiva scanditi secondo le fasi del processo, analogamente al modello italiano, o stabiliti per la sola fase antecedente al giudizio (ad es., Francia, Grecia, Malta, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Spagna) ovvero termini di durata massima prorogabili ma accompagnati da controlli ex officio a cadenze fisse ravvicinate ovvero solo questi ultimi.
Ciò premesso, rimane dunque da stabilire se la disposizione dell’art. 18 lett. e) della legge n. 69 del 2005 sia suscettibile di una interpretazione “adeguatrice”, dato che essa, secondo il Collegio rimettente, implicherebbe l’esigenza di verificare se l’ordinamento processuale dello Stato di emissione offra, in punto di durata della custodia preventiva, in ragione delle norme che la regolano o delle prassi applicative, “garanzie equivalenti” a quelle derivanti dal nostro sistema di termini di durata massima della custodia.
Va innanzi tutto ribadito che non vi sono elementi decisivi per ritenere che con la espressione “se la legislazione dello Stato membro di emissione non prevede i limiti massimi della carcerazione preventiva” si siano intesi evocare termini di durata della custodia cautelare che si accompagnino a tutto l’iter del procedimento, compresi i giudizi di impugnazione, fino alla sentenza irrevocabile.
A prescindere dalla considerazione che l’espressione “carcerazione preventiva” riproduce quella che almeno nelle intenzioni del legislatore costituente, come palesate dai lavori preparatori, doveva riferirsi alla sola fase istruttoria, discostandosi dalla terminologia del vigente codice di rito penale italiano (“custodia cautelare”), va rilevato che secondo le esplicite dichiarazioni del proponente l’emendamento, la disposizione tendeva a impedire che una persona potesse “essere privata della libertà sine die, in assenza di una sentenza di condanna”, e che non venne raccolto il suggerimento del relatore al Senato tendente a modulare la previsione secondo termini di durata massima per fasi o gradi processuali, secondo il sistema italiano.
Decisiva è comunque l’osservazione che, rivolgendosi la norma a una moltitudine di paesi con sistemi processuali grandemente differenti, con riferimento sia alle fasi del processo sia al momento di esecutività della sentenza di condanna e al regime delle impugnazioni, una interpretazione della disposizione che ne espandesse la portata a tutto il processo fino alla sentenza irrevocabile renderebbe di fatto – e senza ragione – inesigibile il suo rispetto per un grande numero degli Stati dell’Unione; il tutto, in contrasto non solo con l’idea ispiratrice della decisione-quadro sul MAE ma anche, come si è visto, con la nozione di custodia preventiva recepita dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo.
Questa considerazione, che esprime una necessità logica prima ancora che sistematica, impone di privilegiare una interpretazione della norma rispondente alle finalità della decisione-quadro, e che, come si è detto, non è esclusa dalla sua lettera.
In secondo luogo, va rilevato che nell’espressione “limiti massimi della carcerazione preventiva”, semanticamente si attenua il rigore del riferimento temporale, evocato, ad esempio, da quella “termini di durata massima della custodia cautelare” di cui all’art. 303 c.p.p.
La nozione di “termine” (o “termine di durata”) implica il prodursi di un automatico effetto giuridico per il solo fatto del decorso del tempo; quella di “limite” o anche di “limite massimo” non collega necessariamente al mero fattore temporale il prodursi di un simile effetto, che ben può essere il prodotto di provvedimenti giudiziali, negativi o positivi, conseguenti a una certa e prefissata cadenza temporale.
Appare plausibile dunque una interpretazione flessibile della norma che la renda adattabile ai vari sistemi processuali cui si dirige, dovendosi sfuggire alla tentazione di parametrare al significato di nozioni ed espressioni evocative di precisi istituti dell’ordinamento interno dettati normativi concepiti dal legislatore italiano ai fini di una loro proiezione interstatuale.
D’altro canto, anche a questo proposito non si può non osservare come sia di intuitiva evidenza che nel porre questa causa di rifiuto della consegna il legislatore italiano non poteva non avvertire, stante il composito quadro normativo di riferimento, che molti Stati membri dell’U.E., alcuni dei quali di antica e sperimentata civiltà giuridica processuale (è il caso, appunto, della Germania), non presentano nella loro legislazione meccanismi rigidi e articolati sui limiti massimi di custodia cautelare sempre e in tutto assimilabili a quelli contemplati dall’ordinamento italiano.
8. Le previsioni della legge processuale tedesca in termini di durata della custodia preventiva.
La legge processuale tedesca, d’altra parte, effettivamente presenta “limiti massimi della carcerazione preventiva” per la fase ante judicium.
In base agli artt. 117-122 c.p.p. tedesco, la custodia cautelare in carcere disposta antecedentemente alla pronuncia di una sentenza di condanna a pena detentiva non può durare più di sei mesi (art. 121 comma 1). Tale termine rappresenta un “limite massimo”, dato che alla scadenza del terzo mese il giudice deve comunque procedere d’ufficio alla verifica della necessità del mantenimento dello status custodiae, salvo che l’imputato abbia un difensore di fiducia (art. 117 comma 5). Il termine di sei mesi rappresenta quindi un limite parametrato al mero decorso del tempo, alla cui scadenza si produce automaticamente l’effetto della liberazione dell’imputato (art. 121 comma 2).
E’ vero che l’Alta Corte Regionale, che decide nel contraddittorio tra le parti (art. 122 comma 2), può disporre (artt. 121 commi 1 e 2) la proroga di detto termine quando “la complessità e vastità delle indagini ovvero un altro motivo importante non consentano di pronunciare una sentenza e giustificano comunque la prosecuzione della custodia cautelare” (salvo che l’esigenza cautelare derivi solo dal pericolo di recidiva, non essendo in tal caso il limite di sei mesi derogabile, ex art. 122/a c.p.p.).
Ma la proroga è disposta per un spazio temporale “massimo” ben definito (tre mesi), pur se possono essere disposte ulteriori proroghe di pari o minore durata, anche in questo caso con controlli periodici d’ufficio ad ogni scadenza (art. 122 commi 3 e 4) ovvero, senza alcuna preclusione temporale, su istanza dell’interessato (art. 117 comma 1). E se la proroga non viene concessa consegue necessariamente l’effetto liberatorio dell’imputato.
Anche volendo stare alla nozione che l’ordinamento processuale italiano collega all’attributo “massimo”, vale rilevare che siffatta locuzione è presente nella rubrica dell’art. 303 c.p.p., il quale prevede termini “massimi”, ma non improrogabili, considerati i casi di “sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare”, nella prassi frequentemente applicati, di cui all’art. 304 c.p.p.; e, per quanto concerne i termini “massimi” di fase, considerati anche i casi di “sterilizzazione” di essi a norma dell’art. 297 comma 4 c.p.p. e di quelli di “proroga” di cui all’art. 305 c.p.p.
Secondo lo stesso linguaggio normativo interno, il termine “massimo” non è quindi sinonimo di “assoluto” o “improrogabile”.
Di fatto, poi, il potere di proroga è esercitato nella prassi applicativa tedesca limitatamente, sicché la durata della custodia in carcere prima del giudizio, anche per reati molto gravi, rimane contenuta nella grande maggioranza dei casi entro i sei mesi (secondo i dati statistici del Ministero della giustizia tedesco, aggiornati all’anno 2003, solo nel 4 per cento dei casi la durata supera un anno).
E ciò grazie anche a numerose pronunzie della Corte costituzionale che, con particolare riferimento al disposto dell’art. 2 comma 2 Cost. ted., hanno più volte ribadito che la durata della custodia cautelare deve essere parametrata non solo alla gravità del reato ma anche alla “celerità” del processo, di modo che il diritto alla libertà dell’imputato cresce di importanza via via che il procedimento si prolunga: dal che deriva che il potere di prorogare la durata della custodia oltre i sei mesi ordinari va interpretato in senso restrittivo (sentt. 2 BvR nn. 190 e 1964 del 2005; n. 1742 del 2006).
Conclusivamente, la Germania, che è nel caso in esame lo Stato richiedente, presenta una normativa che prevede un limite massimo di custodia cautelare (sei mesi) e che assicura, pur nella eventualità di proroga di detto termine, adottabile sulla base di presupposti definiti, la sottoposizione a controlli ex officio, cadenzati nel termine massimo di tre mesi, cui è condizionata la necessità di mantenere l’imputato nello status custodiae, imponendosi in mancanza di tali controlli un automatico effetto liberatorio; il tutto, in presenza di una prassi, collegabile a precisi dettami costituzionali, che di fatto contiene comunque in tempi ridotti la durata complessiva della custodia cautelare ante judicium.
Per quanto sopra detto, questa disciplina appare dunque rispettare sia la lettera sia lo spirito della disposizione contenuta nell’art. 18 lett. e) della legge n. 69 del 2005.
9. Ipotesi di limite temporale implicito.
Analoga conclusione (di rispetto della previsione dell’art. 18 lett. e) della legge n. 69 del 2005) sarebbe da trarsi con riferimento a quelle legislazioni ove, pur non essendo direttamente contemplato un limite temporale per la durata della custodia ante judicium dal cui superamento derivi automaticamente la liberazione dell’imputato, siano comunque previsti specifici meccanismi processuali che comportino un controllo sulla necessità della custodia, funzional
Scritto da Admin il 12 Febbraio 2007 alle 08:00- 506 Articoli Totali
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