Cari fratelli,
vi inoltro una testimonianza
che ho ascoltato ieri su Radio Maria; padre Livio l'ha
commentata all'interno della sua catechesi "quelli
che non si vergognano di Gesù Cristo".
E' molto lunga e drammatica ma vale le pena leggerla
tutta, a me ha colpito molto .... Simo
Sandro MAGISTER
Arcipelago Gulag in Romania: ciò che
nessuno aveva mai raccontato
La testimonianza è di pochi giorni fa. E' stata letta in Vaticano da un
prete greco-cattolico che è stato sedici anni nelle prigioni comuniste.
Ai limiti dell'immaginabile
ROMA - [...] Il volume ha per titolo: "Fede e martirio. Le Chiese orientali cattoliche
nell'Europa del Novecento". Raccoglie gli atti di un convegno di storici tenuto
in Vaticano nel 1998 sulle persecuzioni delle Chiese dell'est. E' stato stampato
nel 2003 dall'Editrice Vaticana. Ma nelle librerie è praticamente
introvabile. Persino lo scaffale virtuale di Amazon.com lo ignora.
Eppure questo è un libro decisamente fuori dell'ordinario. E ancor più lo è stata
la sua presentazione, anch'essa passata sotto immeritato silenzio.
Per capirlo, basta leggere il testo riprodotto qui sotto, letto dal suo autore
proprio durante la presentazione del volume, in Vaticano. L'autore è un
anziano sacerdote della Chiesa greco-cattolica di Romania che ha passato sedici
anni nelle prigioni comuniste. Il racconto della sua prigionia è concretissimo
e insieme spirituale. Un po' Solgenitsin, un po' atti dei martiri. Tra mistero
d'iniquità spinto ai limiti dell'immaginabile e Grazia. Con la "Santa
Provvidenza" che opera per le mani inconsapevoli degli aguzzini.
In tempi in cui il martirio è parola abusata, applicata anche agli "shahid" islamisti
che si fanno esplodere per fare strage, questa è una testimonianza che
aiuta a restituir verità. Assolutamente da non perdere.
"Ma è più grande il Cielo sopra di noi" di
Tertulian Ioan Langa
Il mio nome è Tertulian Langa e della mia vita sono ben 82 gli anni che
non ho più. Di questi, 16 regalati alle prigioni comuniste.
A 24 anni, nel 1946, ero un giovane assistente alla facoltà di filosofia
dell'università di Bucarest. Le truppe russe avevano occupato quasi
un terzo della Romania e mi fu intimato, come membro del corpo insegnante,
di iscrivermi d'urgenza al sindacato manipolato dal partito comunista, imposto
al potere dai blindati sovietici.
Già allora ero pienamente attestato sul fermo atteggiamento magisteriale
che la Chiesa cattolica aveva adottato contro il comunismo, dichiarato male intrinseco.
Quindi non c'era posto nella mia coscienza per un compromesso. Rinunciai alla
carriera universitaria e mi ritirai in campagna come operaio agricolo; ma non
fu sufficiente, poiché ero conosciuto, già alla facoltà,
come militante cattolico e anticomunista. Velocemente fu improvvisato a mio carico
un dossier accusatorio; e visto che le accuse si fondavano su fatti che il codice
penale dell'epoca ancora non incriminava (rapporti con i vescovi, con la nunziatura,
apostolato laico), il mio dossier fu assimilato a quello dei grandi industriali.
Dopo gli interrogatori accompagnati da atroci trattamenti, il procuratore dichiarò con
perfetta logica comunista: "Nel dossier dell'accusato non si trova nessuna prova
sulla sua colpevolezza; ma chiediamo ugualmente il massimo della pena: 15 anni
di lavori forzati. Poiché, se non fosse colpevole, non si troverebbe qui".
Obiettai: "Ma non è possibile che mi condanniate senza avere nessuna prova!".
E lui: "Non è possibile? Guarda come è possibile: 20 anni di lavori
forzati per aver protestato contro la giustizia del popolo". E questa fu
la sentenza.
Ciò avveniva quando la Chiesa greco-cattolica di Romania ancora non
era stata messa fuori legge. Si dava per scontato che il mio arresto e le
torture sarebbero riuscite a trasformarmi in uno strumento a favore della
futura incriminazione di vescovi e preti della Chiesa greco-cattolica e della
nunziatura.
Degli interrogatori e della mia prigionia nei campi di sterminio comunisti
riferisco soltanto alcuni momenti.
Sono stato arrestato a Blaj, nell'ufficio del vescovo Ioan Suciu, allora
amministratore apostolico della metropolia greco-cattolica di Romania e futuro
martire. Mi ero presentato a lui, al capo della nostra Chiesa, per chiedere
lumi alla Santa Provvidenza, poiché il mio padre spirituale, monsignor Vladimir Ghika, altro futuro
martire, era all'epoca nascosto. Mi era stata offerta da qualcuno la possibilità di
partire per l'estero. Trattandosi di un passo importante, non volevo compierlo
senza confrontarlo con la volontà di Dio. E la risposta arrivò:
il mio arresto. Capivo che avrei passato la mia vita nelle prigioni create
dal regime comunista, ma ero sereno: seguivo il percorso della Santa Provvidenza.
LA VERGA DI FERRO
Ricordo il giovedì santo dell'anno 1948. Da due settimane, ogni giorno,
mi percuotevano con un ferro sulla pianta dei piedi, attraverso gli scarponi:
dei fulmini mi percorrevano la spina dorsale e mi esplodevano nel cervello, senza
però che mi fosse rivolta alcuna domanda. Mi preparavano col ferro per
farmi arrivare più morbido all'interrogatorio. Legato mani e piedi e appeso
con la testa in giù, i miei carcerieri mi infilavano in bocca un calzino,
già lungamente passato negli scarponi e nella bocca di altri beneficiari
dell'umanesimo socialista. Il calzino era diventato lo strumento antirumore grazie
al quale si impediva al suono di oltrepassare il luogo dell'interrogatorio. D'altra
parte, era praticamente impossibile emettere un solo gemito. Per di più,
mi ero autobloccato psicologicamente: non ero più capace di gridare o
di muovermi. I miei torturatori interpretavano questo atteggiamento come fanatismo
da parte mia. E continuavano sempre più accaniti, alternandosi nel torturarmi.
Notte dopo notte, giorno dopo giorno. Non mi domandavano nulla, poiché non
era la risposta ciò che li interessava, ma l'annientamento della persona,
fatto che tardava ad avverarsi. E come si prolungava lo sforzo di annientare
la mia volontà, di ottenebrare il mio pensiero, si prolungava indefinitamente
la tortura. Gli scarponi maciullati mi caddero dai piedi, pezzo dopo pezzo.
In quella notte del giovedì santo, in una chiesa vicina, si celebrava
l'ufficio liturgico, accompagnato come da un pianto di campane spaventate. Trasalii.
Gesù avrà sentito il mio grido soffocato, quando, non so come,
urlai da quell'inferno: "Gesù! Gesù!". Fuoruscito attraverso il
calzino, il mio grido non fu compreso dagli aguzzini. Trattandosi del primo suono
che udivano da me, si dichiararono contenti, sicuri d'avermi piegato. Mi trascinarono
con la coperta fino alla cella, dove svenni. Al mio risveglio, davanti a me stava
l'inquisitore, con in mano una risma di carta: "Ti sei ostinato, bandito, ma
non uscirai di qui finché non avrai tirato fuori tutto ciò che
tieni nascosto dentro. Hai 500 fogli. Scrivi tutto ciò che hai vissuto:
tutto su tua madre, su tuo padre, sulle sorelle, i fratelli, i cognati, i parenti,
i compagni, i conoscenti, i vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le religiosi,
i politici, i professori, i vicini e i banditi come te. Non ti fermare finché non
avrai finito la carta". Ma non scrissi nulla. Non per chissà quale fanatismo,
ma perché non ne avevo la forza: anche la mente mi sembrava svuotata.
LA LUPA
Dopo quattro giorni, lo stesso individuo: "Hai finito di scrivere?". Vedendo
che i fogli non erano stati toccati, disse: "Se così stanno le cose, spogliati!
Ti voglio vedere come Adamo nel paradiso". Passarono così altri giorni,
vissuti a pelle nuda sul pavimento: conforto tipico del socialismo umano. Un
altro individuo mi si presentò dopo un po' di tempo davanti alla porta: "Vediamo,
cosa c'è allora sulla carta? Nulla? Sempre ostinato! Guarda che abbiamo
anche altri metodi". Dopo di che uscì. Ritornò accompagnato da
un cane lupo enorme, con le zanne minacciose, in vista. "La vedi? E' Diana, la
cagna eroina, alla quale hanno sparato i tuoi banditi sulle montagne. Ti insegnerà lei
cosa devi fare. Comincia a correre!". E io: "Come a correre? In una stanza di
soli tre metri?". Nella stanza c'era anche una lampadina di 300 watt, troppo
per una stanza di soli tre metri per due, fissata non in alto ma sul muro, a
livello del viso. "Corri!". La lupa, ringhiando, stava pronta ad attaccare. Corsi
per sei, sette ore, ma di ciò mi resi conto soltanto verso l'alba,
vedendo la luce farsi strada nella cella e sentendo movimenti nell'edificio.
Ogni tanto quel tale faceva uscire la lupa per i bisogni. A me non era concesso.
Quando cominciai a perdere l'equilibrio e accennavo a fermarmi, la lupa vigilante,
come a un comando, mi ficcava le sue zanne nella spalla, nella nuca e nel
braccio.
Ho corso sotto i suoi occhi e le sue zanne per 39 ore senza interruzione.
Alla fine crollai e la lupa si lanciò su di me. Mi azzannò al collo,
senza però strozzarmi. Sulla fronte e sugli occhi sentii scorrere qualcosa
di caldo e bruciante, capii che la bestia mi orinava sul viso. Ed è dalle
parole dei miei carnefici che seppi d'aver corso per 39 ore. "Questo lo possiamo
mandare alla maratona di Rio! Che resistenza, la bestia fascista!". Ma vedendo
che nemmeno la maratona era riuscita a convincermi a rilasciare una dichiarazione
sui vescovi e la nunziatura, o su qualche compagno ricercato, ritennero utile
passare a un altro metodo di convincimento: il sacchetto di sabbia.
IL SACCHETTO DI SABBIA
Il giorno dopo, in un ufficio, mi legarono mani e piedi a una sedia, davanti
a un tavolo con un sacchetto sopra. Dietro di me c'era un aguzzino impalato
e muto. A una scrivania, nell'angolo, un individuo calvo con una barbetta
da caprone, che voleva rassomigliare a Lenin. Muto anche lui, fece un segno
muovendo la testa. Il mio boia capì il comando. Impugnò il sacchetto e me lo picchiò in
testa con ritmo, accompagnando ogni colpo con la parola: "Parla!". Decine di
volte, centinaia di volte, non so, magari migliaia: "Parla!". Ma nessuno mi chiedeva
alcunché. Soltanto una voce cavernosa, monotona, mi ficcava nel cervello
l'idea imperativa di dire, di rispondere a ogni domanda sottoposta alla mia coscienza
dall'organo inquisitore. Non mi fu difficile decifrare la satanica idea di voler
sottomettere la mia volontà. Dopo circa venti colpi, cominciai ad applicare
il principio morale "age contra", fa il contrario, dicendo tra me ad ogni colpo: "Non
parlo!". Decine di volte, centinaia di volte. Con l'autosuggestione avevo impiantato
in me lo stereotipo "Non parlo!", col rischio di diventare io stesso schiavo
di quell'unico modo di esprimermi. In effetti fu così: da allora in poi,
automaticamente, a ogni domanda che mi veniva rivolta, non importa su quale argomento,
io rispondevo: "Non parlo!". Mi ci volle un anno intero di sforzi mentali
per liberarmi da questo sinistro riflesso automatico.
VENTOTTO CENTIMETRI
Come soggetto privo di valore e interesse negli interrogatori, fui trasferito
nella prigione sotterranea della zona paludosa di Jilava, a 8 metri sotto
terra, che era stata costruita un tempo a difesa della capitale, ma era allora
completamente inutilizzabile a causa delle forti infiltrazioni d'acqua. Nulla
e nessuno vi resisteva tranne l'uomo, il più alto tesoro del materialismo storico.
Nelle celle di Jilava, i poveri uomini facevano l'esperienza delle sardine: però non
nell'olio, ma nel succo proprio, fatto di sudori, di orine e di acque di infiltrazione,
che scorrevano senza sosta sui muri. Lo spazio era sfruttato nel modo più scientifico:
due metri di lunghezza e ventotto centimetri di larghezza per ciascuna persona
stesa a terra, sul fianco. Alcuni, i più anziani, stavano stesi su tavole
di legno, senza lenzuola o coperte. A contatto col legno erano l'osso omerale
e la parte esterna del ginocchio e della caviglia. Stavamo sulla punta delle
ossa, per occupare uno spazio minimo. La mano non poteva appoggiarsi che sull'anca
o sulla spalla del vicino. Non resistevamo così più di mezz'ora;
poi tutti, al comando, poiché non era possibile separatamente e uno dopo
l'altro, ci voltavamo sull'altro fianco. La catasta di corpi stipati, così disposti,
aveva due livelli, come in un letto a castello. Ma al di sotto di questi c'era
un terzo livello, dove i detenuti giacevano direttamente sul cemento. Sul cemento
i vapori di condensa del respiro dei settanta uomini, assieme alle acque di infiltrazione
e all'orina che fuorusciva dalle latrine, formavano una miscela viscosa in cui
nuotavano i malcapitati. Al centro della cella-tomba di Jilava troneggiava un
recipiente metallico, di circa settanta-ottanta litri, per l'orina e le feci
di settanta uomini. Non aveva coperchio e l'odore e il liquido traboccavano abbondantemente.
Per raggiungerlo, dovevi passare per il "filtro", vale a dire per un controllo
severo applicato a pelle nuda, controllo nel quale veniva sottoposto ad esame
l'intero organismo e ogni suo orifizio.
IL "FILTRO"
Con una bacchetta di legno ci raspavano in bocca, sotto la lingua e le gengive,
nel caso in cui noi banditi avessimo lì nascosto qualcosa. La stessa bacchetta
ci perforava le narici, le orecchie, l'ano, sotto i testicoli, rimanendo sempre
la stessa, rigorosamente la stessa per tutti, come segno d'egualitarismo. Le
finestre di Jilava non erano fatte per dare luce, ma per ostacolarla, poiché tutte
erano accuratamente chiuse da tavole di legno inchiodate. La mancanza d'aria
era tale che per respirare, tre per volta, ci avvicendavamo a turni, pancia in
giù, con la bocca accanto allo spiraglio della porta, posizione in cui
contavamo sessanta respiri, affinché poi anche altri compagni potessero
riprendersi dallo svenimento e dalla carenza d'ossigeno.
Contribuivamo così, a nostro modo, all'edificazione del più umano
sistema del mondo. [...]
NUDI NEL GELO
Da Jilava, dopo lunghi anni di profanazioni umane, fummo trasferiti, catene
ai piedi, al carcere di massimo isolamento, chiamato Zarka, padiglione del
terrore della prigione di Aiud. L'accoglienza si svolse secondo lo stesso
rituale sinistro, diabolico, di profanazione dell'uomo creato dall'amore
di Dio. La stessa raspatura, gli stessi stivali tremendi che ci si ficcavano
nelle costole, nella pancia e nei reni. Nonostante ciò, notammo una differenza: non eravamo più sottoposti
al regime di conserva in orine, sudori, condensa e carenza d'ossigeno, ma fummo
sottoposti a una intensa cura di ossigenazione a pelle nuda e nel gelo, bandito
dopo bandito (da intendere ministri, generali, professori universitari, scienziati,
poeti) compreso me, che non ero nulla tranne che un "Non parlo!" gigante,
una ferma e umile fiducia nella Grazia che mi avrebbe fatto superare la prova.
Tutti dovevamo sparire, come nemici del popolo. Altrimenti, come avrebbe
potuto farsi avanti il tanto proclamato "Uomo nuovo sovietico"? La cella in cui ero
stato introdotto non conteneva nulla: né letto, né coperta, né lenzuolo,
né cuscino, né tavolo, né sedia, né stuoia e
nemmeno finestre. Soltanto sbarre di acciaio e io, come tutti gli altri,
da solo nella cella: mi meravigliavo di me stesso, vestito con la sola pelle
e coperto dal freddo.
Era la fine di novembre. Il freddo si faceva sempre più penetrante, come
uno scomodo compagno di cella. Dopo circa tre giorni, dalla porta violentemente
sbattuta mi furono gettati dei pantaloni logori, una camicia con maniche corte,
mutande, una divisa a strisce e un paio di scarponi consumati, senza lacci, senza
calzini. Nulla da mettere in testa. E in più una specie di latrina, un
misero recipiente di circa quattro litri. Mi vestii come un razzo. Congelati,
il quarto giorno ci contarono. Al posto del nome mi diedero un numero: K-1700,
l'anno in cui la Chiesa della Transilvania si riunì con Roma. All'anagrafe,
ero già ucciso. Sopravvivevo solo come numero statistico. Arrivò poi
il brodo, servito con un mestolo da 125 grammi: un fluido allungato prodotto
dalla bollitura di farina di mais. Come pranzo ci fu distribuita una minestra
di fagioli, nella quale potei contare all'incirca otto, nove chicchi, con parecchie
bucce vuote, senza contenuto. Per la cena, ci portarono del te con una crosta
di pane bruciato. Dopo una settimana, i fagioli furono sostituiti da un passato
di crusche, nel quale contai quattordici chicchi. Di tanto in tanto, i fagioli
si alternavano con il passato di crusche. Vivevamo con meno di quanto si dà a
una gallina.
CAMMINARE O MORIRE
Per sopravvivere al freddo, eravamo costretti a muoverci continuamente, a
far ginnastica. Nel momento in cui cadevamo stremati dalla stanchezza e dalla
fame, precipitavamo nel sonno; un sonno brevissimo, giacché il freddo era tagliente.
Da un tale sonno mi svegliò un giorno una voce proveniente dall'altra
parte del muro: "Qui professor Tomescu. Chi sei?". Era un ex ministro della sanità che,
udito il mio nome, così proseguì: "Ho sentito parlare di te. Ascoltami
attentamente: siamo stati portati qui per essere sterminati. Non collaboreremo
mai con loro. Ma chi non cammina muore, e quindi diventa un collaboratore. Trasmettilo
agli altri: chi si ferma, muore. Camminare senza sosta!". Il padiglione, immerso
nel silenzio lugubre della morte, risuonava sotto i nostri scarponi senza lacci.
Eravamo animati dalla misteriosa volontà di un popolo di rimanere nella
storia e dalla vocazione della Chiesa di restare viva. Ci fermavamo dal camminare
solamente intorno alle 12,30, per una mezz'ora, quando il sole si fermava avaro
per noi nell'angolo della stanza. Là, rannicchiato col sole sul viso,
rubavo un fiocco di sonno e un raggio di speranza. Quando il sole mi abbandonava
anche lui, sentivo però di non essere abbandonato dalla Grazia. Sapevo
di dover sopravvivere. Camminavo, dicendomi come in un ritornello, sillabando: "Non
voglio morire! Non voglio morire!". E non sono morto! A ogni passo cadenzavo
nella mente una preghiera, componevo litanie, recitavo versetti di salmi.
Continuammo a camminare così, per non inciampare nella morte, diciassette
settimane. Chi non aveva più la forza o la volontà di muoversi,
moriva. Degli 80 uomini entrati nella Zarka, appena 30 sopravvissero. La
sbarre di ferro, piano piano, si rivestivano di brina, formatasi dagli aliti
di vita del nostro respiro, brillante abito di passaggio verso il cielo.
MA TUTTO E' GRAZIA
Credetti fortemente, più volte, che sarei arrivato fino ai margini della
notte. Ma avevo ancora una lunga strada da percorrere. Arrivato poi, anni dopo,
in ciò che immaginavo dovesse essere la libertà, costatai che non
era in realtà che un nuovo modo di essere della notte, che il gelo tra
la Chiesa greco-cattolica e la gerarchia della Chiesa sorella ortodossa non si
lasciava sciogliere ancora; che le nostre chiese continuavano ad essere confiscate,
e il gregge diminuiva sempre di più, ucciso dalle promesse. Ma anche Cristo
Signore ha vinto soltanto quando ha potuto pronunciare con l'ultimo respiro: "Consummatum
est", tutto è compiuto.
Non ho scritto molto di queste mie drammatiche esperienze. Chi può credere
a ciò che sembra incredibile? Chi può credere che le leggi fisiche
possono essere superate dalla volontà? E se dovessi raccontare i miracoli
che ho vissuto? Non sarebbero considerati delle fantasmagorie? Sopporterei più difficilmente
questa incredulità che non altri anni di prigione. Ma nemmeno Gesù è stato
creduto da tutti coloro che l'hanno visto: "Da allora molti dei suoi discepoli
si tirarono indietro e non andavano più con lui" (Gv 6,66).
Nulla avviene per caso nella vita. Ogni attimo che il Signore ci concede è gravido
della Grazia - impazienza benevola di Dio - e della nostra volontà di
rispondergli o di rifiutarlo. Spetta a ciascuno di noi non ridurre tutto a un
semplice racconto duro, feroce, incredibile, e capire invece che la Grazia accolta
non frena l'uomo, ma lo porta oltre le sue aspettative e forze. Questa testimonianza
spero di cuore che apra una finestra di Cielo. Perché è più grande
il Cielo sopra di noi che non la terra sotto i nostri piedi.
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