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E' costituzionalmente illegittimo l'art. 204-bis del
D.lgs. n. 285 del 1992, come modificato del decreto-legge
151/2003, che impone, all'atto del deposito del ricorso
avverso una sanzione per violazione del Codice della Strada,
di versare presso la cancelleria del giudice di pace, a
pena di inammissibilità del ricorso, una somma pari
alla metà del massimo edittale della sanzione inflitta
dall'organo accertatore.
SENTENZA N. 114
ANNO 2004
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gustavo ZAGREBELSKY Presidente
- Valerio ONIDA Giudice
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfonso QUARANTA "
ha pronunciato la seguente SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art.
204-bis, comma 3, del decreto legislativo 30 aprile 1992,
n. 285 (Nuovo codice della strada), disposizione introdotta
dall'art. 4, comma 1-septies, del decreto-legge 27 giugno
2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della
strada), aggiunto dalla legge di conversione 1° agosto
2003, n. 214, promossi con ordinanze del 22 settembre 2003
dal Giudice di pace di Mestre, del 28 agosto 2003 dal Giudice
di pace di Anzio, del 12 settembre 2003 dal Giudice di pace
di Vietri di Potenza, del 2 ottobre 2003 dal Giudice di
pace di Bari, del 30 agosto 2003 dal Giudice di pace di
Montepulciano, del 20 ottobre 2003 dal Giudice di pace di
Bari, del 17 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Recco,
del 9 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Reggio Calabria,
del 21 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Pratola Peligna,
del 17 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Pisa, del 16
ottobre 2003 dal Giudice di pace di Mestre e del 6 ottobre
2003 dal Giudice di pace di Asiago, rispettivamente iscritte
ai nn. 996, 997, 999, 1044, 1047, 1081, 1083, 1087, 1092,
1094, 1095 e 1110 del registro ordinanze 2003 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 47, 49, 50,
51 e 52, prima serie speciale, dell'anno 2003.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 marzo 2004 il Giudice
relatore Alfonso Quaranta.
Ritenuto in fatto
1.¾ I Giudici di pace di Mestre (r.o. n. 996 e n.
1095 del 2003), Anzio (r.o. n. 997 del 2003), Vietri di
Potenza (r.o. n. 999 del 2003), Bari (r.o. n. 1044 e n.
1081 del 2003), Montepulciano (r.o. n. 1047 del 2003), Recco
(r.o. n. 1083 del 2003), Reggio Calabria (r.o. n. 1087 del
2003), Pratola Peligna (r.o. n. 1092 del 2003), Pisa (r.o.
n. 1094 del 2003) ed Asiago (r.o. n. 1110 del 2003) hanno
sollevato questione di legittimità costituzionale
dell'art. 204-bis, comma 3, del decreto legislativo 30 aprile
1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), disposizione introdotta
dall'art. 4, comma 1-septies, del decreto-legge 27 giugno
2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della
strada), aggiunto dalla legge di conversione 1° agosto
2003, n. 214.
Premettono i rimettenti che la norma impugnata –
relativa al giudizio direttamente instaurabile avverso il
verbale di contestazione d'infrazione alle norme sulla circolazione
stradale – fa carico a chi agisce, «all'atto
del deposito del ricorso», di «versare presso
la cancelleria del giudice di pace, a pena di inammissibilità
del ricorso, una somma pari alla metà del massimo
edittale della sanzione inflitta dall'organo accertatore».
1.1.¾ I Giudici di pace di Mestre e di Anzio, in
quelle che risultano in ordine cronologico le prime due
ordinanze relative alla questione in esame (r.o. n. 996
e n. 997 del 2003), deducono la violazione unicamente degli
articoli 3 e 24 della Costituzione.
Il primo dei rimettenti (r.o. n. 996 del 2003) –
non senza aver sottolineato, nel ripercorrere in via di
estrema sintesi le vicende del giudizio a quo, che il ricorrente
«ha provveduto, come disposto dalla nuova normativa,
al deposito giudiziario della somma» dovuta ex lege
– pone preliminarmente in luce come l'obbligo suddetto
si risolva in uno «strumento per ridurre drasticamente
il numero dei procedimenti» giurisdizionali in materia,
ciò che darebbe luogo ad una «grave disparità
di trattamento tra i cittadini», precludendo ai non
abbienti di «poter validamente proporre le proprie
ragioni in sede giudiziaria».
Si realizzerebbe, così, una violazione non soltanto
dell'art. 3 della Costituzione (essendo la parità
dei cittadini davanti alla legge «enormemente turbata
dall'onere imposto al ricorrente non benestante»),
ma pure dell'art. 24, «considerato che, in queste
condizioni, i cittadini meno facoltosi» si vedrebbero
«indirettamente privare della possibilità di
tutelare i propri diritti in via giudiziaria, con grave
nocumento al principio che la difesa è diritto inviolabile».
Parimenti, il Giudice di pace di Anzio (r.o. n. 997 del
2003) – nel dedurre la violazione degli stessi articoli
della Costituzione – assume che la norma impugnata
«rappresenta un indubbio ed ingiustificato ostacolo
per la tutela in sede giurisdizionale dei diritti del ricorrente»
(essendo questi, di fatto, indotto «a desistere dall'impugnazione»),
concretando inoltre «una manifesta disparità
di trattamento» tra gli utenti della strada, con il
favorire «ingiustificatamente coloro i quali dispongono
di maggiore agiatezza economica».
1.2.¾ Più articolata si rivela la prospettazione
del Giudice di pace di Vietri di Potenza (r.o. n. 999 del
2003), il quale ipotizza il contrasto – oltre che
con gli articoli 3 e 24 – anche con l'art. 2 della
Costituzione.
Tale rimettente eccepisce – in primis – l'esistenza
di una (doppia) «violazione del principio di eguaglianza
ex art. 3 della Costituzione».
La «novella» al codice della strada avrebbe,
a suo dire, «creato di fatto e riservato sul piano
processuale (…) una diversa posizione al ricorrente
e alla Pubblica Amministrazione» (evidente in particolar
modo in sede conclusiva del giudizio, e ciò in quanto
l'Amministrazione, in caso di esito processuale a sé
favorevole, «ha immediatamente a disposizione la somma
che le è dovuta oltre sicuramente ad una parte delle
spese di causa», considerato che la sanzione inflitta
è di regola «comminata nel minimo edittale»),
differenziando, altresì, «il cittadino abbiente
da quello meno abbiente» (giacché soltanto
ai primi sarebbe permesso di poter esercitare la tutela
dei propri diritti proponendo ricorso al giudice ordinario).
Tale situazione di disparità – che il rimettente
giudica «ancor più pregnante» ove «si
consideri che lo stesso legislatore, al fine di eliminare
gli ostacoli di carattere economico tra i cittadini, ha
previsto con l'art. 26 della legge 689/1981 il pagamento
rateale della sanzione (…) “su richiesta dell'interessato
che si trovi in condizioni economiche disagiate”»
– non sarebbe mitigata dal fatto che i soggetti non
abbienti possono, pur sempre, «presentare il ricorso
amministrativo (che non prevede il versamento della cauzione)».
Se così fosse, infatti, dovrebbe concludersi che
«il ricorso al giudice sia un mezzo di tutela riservato
esclusivamente ai soggetti economicamente agiati»
(con violazione dello stesso art. 2 della Costituzione,
atteso che tra i diritti inviolabili dell'uomo rientra pure
«il diritto all'eguaglianza, come valore assoluto
della persona umana e diritto fondamentale dell'individuo»).
L'art. 204-bis del d.lgs. n. 285 del 1992 creerebbe, dunque,
in base alle condizioni economiche del ricorrente e quanto
all'accesso alla tutela giurisdizionale, un “trattamento
differenziato”, il quale però – sottolinea
il rimettente – «può trovare legittima
applicazione solo ove vi sia l'indefettibile presenza di
ragionevoli motivi», non ravvisabili «nello
scopo di evitare che il cittadino meno abbiente possa ricorrere
in sede giurisdizionale contro i verbali d'infrazione al
codice della strada».
1.3. ¾ Il Giudice di pace di Bari, proponendo argomentazioni
pressoché identiche a quelle sopra indicate, ha dedotto
– con la prima delle due ordinanze da esso pronunciate
(r.o. n. 1044 del 2003) – l'esistenza di una violazione
degli articoli 3, 24 e 113 della Costituzione.
Dubita il rimettente della legittimità costituzionale
della norma impugnata, in primo luogo, «per difetto
di ragionevolezza e disparità di trattamento»,
situazione quest'ultima che vedrebbe contrapposti «il
cittadino che per le sue condizioni economiche è
in condizione di depositare la cauzione richiesta»
e colui che, «privo di mezzi o con scarse possibilità
economiche», si vede «preclusa» la possibilità
di adire le vie giurisdizionali.
Deduce, inoltre, il suddetto giudice a quo la «violazione
dell'art. 24 della Costituzione, che consente a tutti i
cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri
diritti senza limitazioni», avanzando il «sospetto»
che il legislatore abbia voluto, in subiecta materia, «reintrodurre
la ripudiata regola del “solve et repete”».
Eccepisce, infine, il contrasto con l'art. 113 della Costituzione,
in quanto la norma in esame «condiziona notevolmente
e senza alcuna plausibile giustificazione la tutela giurisdizionale
dei diritti contro gli atti della pubblica amministrazione».
I medesimi parametri sono invocati anche dal Giudice di
pace di Mestre, nella seconda delle due ordinanze (r.o.
n. 1095 del 2003) emesse da quell'ufficio giudiziario.
Il rimettente assume che tale norma darebbe vita ad «un'evidente
differenza di trattamento tra i cittadini, in particolare
tra coloro che hanno la capacità patrimoniale per
assolvere all'adempimento imposto e coloro che non hanno
mezzi sufficienti per effettuare il pagamento», nonché
– tenuto conto che la proposizione del ricorso amministrativo
non è subordinata alla medesima condizione –
ad una «ingiustificata differenza tra i due mezzi
di opposizione, rendendo (…) evidente che il ricorso
avanti il giudice di pace diventerebbe uno strumento di
tutela fruibile solo dai soggetti più facoltosi»
(con violazione anche del «secondo comma dell'articolo
3 della Costituzione che sancisce che è compito della
Repubblica rimuovere, non già creare, ostacoli di
ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà
e l'eguaglianza dei cittadini»).
Deduce, inoltre, la violazione del «diritto di difesa
sancito dagli articoli 24 e 113 della Costituzione»,
non essendo la cauzione contemplata dalla norma suddetta
«in alcun modo razionalmente collegata alla pretesa
dedotta in giudizio», né mirando «allo
scopo di assicurare al procedimento uno svolgimento conforme
alla sua funzione». Essa, per contro, appare piuttosto
«introdotta al fine di restringere il campo dei possibili
ricorrenti avverso provvedimenti amministrativi».
1.4.¾ Ipotizza, invece, la violazione anche dell'art.
25, primo comma, della Costituzione (oltre che degli articoli
3 e 24, primo comma,) il Giudice di pace di Montepulciano
(r.o. n. 1047 del 2003).
Questi ritiene, difatti, che l'art. 204-bis del d.lgs.
n. 285 del 1992 si ponga in contrasto «con i principi
di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge
e di libero accesso alla tutela giurisdizionale dei propri
diritti davanti al giudice naturale precostituito per legge».
Sottolinea che tale norma, «nel prevedere l'obbligatorietà
di una cauzione addirittura per poter accedere alla tutela
giurisdizionale», darebbe vita ad una «inedita
(…) doppia discrasia», ed esattamente –
da un lato – «tra azioni esperibili in via giurisdizionale
e azioni esperibili in via amministrativa», nonché
– dall'altro – «all'interno della stessa
categoria delle azioni di carattere giurisdizionale».
Con specifico riferimento a quest'ultimo aspetto, il rimettente
pone in luce come per nessuna azione di carattere giurisdizionale
l'ordinamento preveda l'obbligo di prestare preventivamente
cauzione, atteso che, pur essendo tale istituto «ben
conosciuto dalle norme processuali», esse lo contemplano
non come «sbarramento iniziale» per l'accesso
alla tutela giurisdizionale, bensì «solo a
giudizio ormai pendente, e a discrezione del giudice».
Nel caso in esame, inoltre, la cauzione – salvo non
volere ritenere che la sua imposizione ope legis si giustifichi
in quanto “lo Stato teme per la solvibilità
del ricorrente” – contravverrebbe alla stessa
natura dell'istituto, che è «quella di un deposito
di somme di denaro a garanzia di un determinato comportamento
futuro», richiesto a colui che è gravato dalla
prestazione della cauzione.
La sua previsione, quindi, risolvendosi in «un'inammissibile
anticipazione della sanzione, perché al ricorrente
si chiede di versare subito – obbligatoriamente e
per il solo fatto di chiedere giustizia – ciò
che solo il giudizio di merito potrà eventualmente
accertare essere da lui dovuto”, paleserebbe quale
sia la reale finalità avuta di mira dal legislatore,
e cioè di «scoraggiare in maniera ingiustificatamente
vessatoria il diritto inalienabile del cittadino a richiedere
giustizia, e richiederla al suo giudice naturale precostituito
per legge» (donde l'ipotizzata violazione pure dell'art.
25, primo comma, della Costituzione).
La scelta, infine, di compromettere «senza ragione
il diritto dei cittadini alla tutela giurisdizionale»
– con violazione dei «principi che portarono
la Corte costituzionale, in anni ormai lontani, a dichiarare
costituzionalmente illegittimo l'art. 98 c.p.c. (…)
e la c.d. clausola del “solve et repete”»
– sostanzierebbe l'altro profilo di «discrasia»
denunciato dal rimettente (quello tra azioni amministrative
e giurisdizionali). Una discrasia, questa, tanto più
grave ove si consideri che «il legislatore della novella
ha, al contrario, ulteriormente facilitato il ricorso al
prefetto» (il quale «può essere adito
direttamente, mediante una semplice raccomandata»),
alterando in tal modo «il principio di parità/alternatività
tra i due rimedi» e dando vita «all'introduzione
“de facto” nell'ordinamento di un principio
di riserva di amministrazione del tutto incompatibile col
sistema costituzionale».
1.5. ¾ Quattro diversi parametri, invece, sono richiamati
dal Giudice di pace di Bari, nella seconda delle ordinanze
sopra indicate (r.o. n. 1081 del 2003), proveniente da tale
ufficio giudiziario.
Il rimettente, difatti, ha dedotto che la norma impugnata
si porrebbe in «contrasto con gli articoli 3, 24,
111 e 113 Costituzione».
Premesso che la scelta operata dal legislatore del 2003
«sembra volere reintrodurre nel nostro ordinamento
la regola del “solve et repete”, già
dichiarata incostituzionale in numerose precedenti pronunzie
della Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n.
21/1961», il giudice a quo deduce che la previsione
legislativa suddetta – in contrasto con l'art. 3,
primo comma, della Costituzione – «potrebbe
non assicurare uguaglianza di trattamento tra colui che
è in grado di assolvere la cauzione preventiva e
colui, che pur potendo astrattamente aver ragione nei confronti
dell'amministrazione, necessariamente soccomberebbe per
non poterla corrispondere».
Ipotizza, inoltre, la «violazione del diritto di
difesa», atteso che (in spregio all'art. 24 della
Costituzione) «il suo esercizio sarebbe condizionato
dalla maggiore o minore disponibilità economica del
singolo».
Assume, infine, la violazione degli articoli 111, secondo
comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione.
L'imposizione di «un previo pagamento cauzionale a
carico del ricorrente» – destinato a convertirsi
in caso di sua soccombenza in un «prelievo totale
o parziale in favore» dell'amministrazione –
si tradurrebbe, per un verso, in un «privilegio»
in favore di quest'ultima (con conseguente violazione del
principio «di parità delle parti in contraddittorio»
di cui all'art. 111, secondo comma, della Costituzione),
rappresentando, inoltre, «un ingiustificato ostacolo
per la tutela in sede giurisdizionale dei diritti (…)
contro gli atti della pubblica amministrazione» (in
contrasto con l'art. 113, primo e secondo comma, della Costituzione).
1.6.¾ Sono accomunate, invece, dalla denuncia della
violazione esclusivamente degli articoli 3 e 24 della Costituzione
le ordinanze di rimessione dei Giudici di pace di Recco
(r.o. n. 1083 del 2003), di Reggio Calabria (r.o. n. 1087
del 2003) e di Pisa (r.o. n. 1094 del 2003).
Il primo dei suddetti giudici rimettenti (r.o. n. 1083
del 2003) muove dalla constatazione che «i casi di
cauzione previsti dal codice di rito» costituiscono
«un numerus clausus legato soprattutto a provvedimenti
di natura cautelare e non già alla mera presentazione
di domande giudiziali di merito», ponendo altresì
in luce «la sorte» subita dai «depositi
di soccombenza» nel processo civile, «definitivamente
abrogati dall'art. 1 della legge 18 ottobre 1977 n. 793»
(Abolizione del deposito per soccombenza nel processo civile).
Evidenzia, inoltre, l'irrazionalità – «in
una materia caratterizzata dalla gratuità (…)
e dalla massima semplificazione per le parti», alla
stregua di quanto previsto dall'art. 23 della legge 24 novembre
1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – di una
disposizione, quale quella censurata, che «pone a
carico del cittadino un costo che, in qualche ipotesi, può
anche essere molto oneroso (…) ed un adempimento,
quale quello dell'apertura di un deposito giudiziario presso
l'ufficio postale (…), estremamente complesso».
Assume, infine, la violazione delle norme costituzionali
suddette (articoli. 3 e 24 della Costituzione), giacché
l'imposizione della cauzione, da un lato, «ostacola
l'esercizio del diritto di agire per la tutela dei propri
diritti proprio in un settore caratterizzato dal fatto di
non addossare alcun onere né economico né
tecnico al cittadino», e, dall'altro, «elimina
la tutela ai non abbienti», ciò che renderebbe
evidente come «la finalità di questa riforma
non sia se non quella di creare (…) un forte deterrente
alla presentazione dei ricorsi al giudice di pace»
Il Giudice di pace di Reggio Calabria (r.o. n. 1087 del
2003) deduce che la previsione dell'art. 204-bis del d.lgs.
n. 285 del 1992 lederebbe «il diritto fondamentale
dell'individuo espressamente tutelato dall'art. 3 della
Costituzione», ponendo «i soggetti abbienti
e non abbienti su un piano di disuguaglianza tra loro».
Su tali basi, quindi, ipotizza che la norma in esame sia
«in netto contrasto con l'art. 24 della Costituzione,
il quale sancisce che tutti possono agire in giudizio per
la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi».
La violazione del combinato disposto degli articoli 3 e
24 della Costituzione è posta alla base dell'ordinanza
di rimessione del giudice di pace di Pisa (r.o. n. 1094
del 2003).
Il rimettente assume che i principi sanciti da tali norme
sarebbero derogati ingiustificatamente dalla disposizione
impugnata, richiamando all'uopo la pronuncia della Corte
costituzionale n. 67 del 1960 (che dichiarò l'illegittimità
costituzionale dell'art. 98 cod. proc. civ.).
Deduce, infine, la violazione dei parametri suddetti anche
«sotto il profilo della ragionevolezza». Al
riguardo, evidenzia come un trattamento differenziato riservato
a situazioni eguali possa «trovare legittima applicazione
solo ove vi sia l'indefettibile presenza di ragionevoli
motivi oggettivamente rilevabili a giustificazione»
dello stesso. In tale prospettiva, l'esistenza di una sostanziale
continuità tra la situazione anteriore alla legge
di riforma del codice della strada, e quella successiva
(atteso che – sottolinea il rimettente – la
possibilità contemplata dalla legge n. 214 del 2003
di proporre «ricorso immediato» al giudice di
pace era già stata riconosciuta in virtù di
«interpretazione adeguatrice» proposta dalla
stessa Corte costituzionale), risulta ingiustificatamente
alterata «in quanto la prevista cauzione a pena d'inammissibilità
finisce per costituire una “compressione”, una
diminuzione, di un diritto di azione già esistente
nell'ordinamento».
1.7.¾ Ipotizzano, conclusivamente, la violazione
anche dell'art. 2 della Costituzione, oltre che degli articoli
3 e 24, i Giudici di pace di Pratola Peligna (r.o. n. 1092
del 2000) ed Asiago (r.o. n. 1110 del 2003).
Deduce il primo dei due rimettenti che «la normativa
in parola lede il diritto fondamentale dell'individuo espressamente
tutelato dall'art. 3 della Costituzione» (in ciò
sostanziandosi la violazione anche dell'art. 2 della Carta
fondamentale), ponendo i soggetti abbienti e non abbienti
su un piano di disuguaglianza fra loro, precludendo a questi
ultimi l'accesso alla tutela giurisdizionale.
Assume, inoltre, la violazione dell'art. 24 della Costituzione,
e ciò in quanto il «versamento della cauzione
previsto per la tutela dei diritti del ricorrente nella
sola sede giurisdizionale», oltre a «rappresentare
un ingiustificato quanto ingiusto vantaggio per l'Autorità
opposta», priverebbe della «possibilità
di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti»
quanti «non dispongono di una sufficiente agiatezza
economica, in tal modo ledendo gravemente il diritto di
difesa» degli stessi.
Verrebbe, in tal modo, a rivivere «di fatto un'anomala
figura di imposta “solve et repete”»,
quantunque la stessa sia stata espunta dall'ordinamento
«con sentenza del giudice delle leggi (n. 21 del lontano
1961)», senza peraltro dimenticare – conclude
il rimettente – che «la stessa Corte costituzionale
(sentenza n. 67 del 1960) dichiarò costituzionalmente
illegittimo l'art. 98 del c.p.c., che prevedeva proprio
il potere del giudice d'imporre una cauzione alla parte,
con conseguente estinzione del giudizio in caso di mancato
versamento».
Si richiama a tale decisione di questa Corte anche il Giudice
di pace di Asiago (r.o. n. 1110 del 2003), il quale –
sviluppando argomentazioni praticamente identiche a quelle
già illustrate – torna a ribadire come l'avvenuta
«introduzione dell'obbligo di versamento di una somma,
costituente un vero e proprio deposito cauzionale»,
di fatto, «verrebbe a consentire l'accesso alla giustizia
solo ai cittadini facoltosi».
Sussisterebbe, pertanto, violazione dell'intero art. 24
della Costituzione, se è vero che – mentre
i primi due commi stabiliscono che tutti possono agire in
giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi,
riconoscendo la difesa quale diritto inviolabile in ogni
stato e grado del procedimento – il terzo comma garantisce
che siano «assicurati ai non abbienti, con appositi
istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni
giurisdizione».
2.¾ È intervenuto in tutti i giudizi così
promossi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo
il rigetto della questione.
La difesa erariale – sul presupposto che «il
ricorso al giudice di pace» rappresenti, in tale materia,
«una soluzione alternativa (ed in certa misura agevolata)
rispetto al rimedio generale (ricorso al prefetto)»
– esclude l'ipotizzata disparità di trattamento.
Poiché, infatti, l'amministrazione affronta il giudizio
senza aver avuto «neppure la possibilità di
una verifica approfondita» – attraverso l'esame
dell'autorità prefettizia – della fondatezza
della pretesa avversaria, sarebbe «ragionevole che
il ricorso diretto al giudice di pace (…) sia sottoposto
dalla legge a particolari oneri».
La previsione della cauzione, inoltre, non costituirebbe
– ad avviso dell'Avvocatura – neppure un meccanismo
del tutto «innovativo all'interno dell'ordinamento,
che registra, nel settore penale, altre ipotesi similari»,
e segnatamente «quella prevista dal primo comma dell'art.
3-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575» (Disposizioni
contro la mafia), nonché quelle di cui agli articoli
162 (Oblazione nelle contravvenzioni) e 162-bis (Oblazione
discrezionale) del codice penale.
La conclusione è, quindi, nel senso che il legislatore
del 2003, «mosso da un intento di cautela deflativa»,
avrebbe «operato una scelta di carattere procedimentale»
assolutamente ragionevole, proponendosi «di differenziare
le discipline ed i relativi rimedi previsti dall'ordinamento,
a seconda che l'autore della violazione intenda far valere
i propri diritti di fronte all'autorità amministrativa
ovvero, anticipatamente, a quella giudiziaria».
Considerato in diritto
1.— I Giudici di pace indicati in epigrafe hanno sollevato
questione di legittimità costituzionale del comma
3 dell'art. 204-bis del decreto legislativo 30 aprile 1992,
n. 285 (Nuovo codice della strada), disposizione introdotta
dall'art. 4, comma 1-septies, del decreto-legge 27 giugno
2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della
strada), aggiunto dalla legge di conversione 1° agosto
2003, n. 214.
Oggetto delle loro censure è la previsione normativa
che stabilisce – a carico di chi proponga ricorso
avverso il verbale di contestazione d'infrazione alle regole
del codice della strada – l'onere di «versare
presso la cancelleria del giudice di pace, a pena di inammissibilità
del ricorso, una somma pari alla metà del massimo
edittale della sanzione inflitta dall'organo accertatore».
2.— Elemento comune a tutte le ordinanze di rimessione
è l'ipotizzata violazione degli articoli 3 e 24 della
Costituzione, sotto il profilo che l'onere in questione
– pena l'inammissibilità del ricorso giurisdizionale
– si risolverebbe in una discriminazione dei soggetti
privi di adeguati mezzi economici, i quali, anche in ragione
del cospicuo ammontare di cui è imposto il pagamento,
si vedono, se non precludere, quantomeno notevolmente ostacolare
l'accesso alla tutela giurisdizionale, con conseguente pregiudizio
del loro «diritto inviolabile» di agire in giudizio.
Né ad escludere tale evenienza varrebbe il rilievo
che resta ferma per costoro la possibilità di proporre
– senza necessità di alcun preventivo versamento,
non contemplato in tale ipotesi – il ricorso all'autorità
prefettizia (ex art. 203 del medesimo d.lgs. n. 285 del
1992), giacché ciò, semmai, evidenzierebbe
vieppiù l'esistenza di un trattamento discriminatorio,
trasformando il ricorso al giudice di pace in strumento
a disposizione dei soli soggetti più facoltosi, con
violazione anche del secondo comma dell'art. 3 della Costituzione,
che fa carico alla Repubblica di rimuovere, e non già
creare, «ostacoli» all'eguaglianza sostanziale
dei cittadini.
Alcuni dei giudici a quibus – sempre in relazione
alla violazione dell'art. 3 della Costituzione – denunciano
anche un intrinseco difetto di ragionevolezza che connoterebbe
la norma in esame, sottolineando – in particolare
– come il versamento da essa contemplato non sia in
alcun modo razionalmente collegato alla pretesa dedotta
in giudizio, né assolva «allo scopo di assicurare
al procedimento uno svolgimento conforme alla sua funzione»,
apparendo piuttosto introdotto «al fine di restringere
il campo dei possibili ricorrenti avverso provvedimenti
amministrativi».
La censura relativa alla violazione degli articoli 3 e
24 della Costituzione è accompagnata, poi, in talune
ordinanze di rimessione, da altre concernenti gli articoli
2, 25, primo comma, 111, secondo comma, e 113 della Carta
fondamentale.
3.— Le questioni sollevate, per la loro evidente
connessione, vanno trattate congiuntamente, per cui va disposta
la riunione dei relativi giudizi.
4.— La questione sollevata dal Giudice di pace di
Mestre con l'ordinanza n. 996 del 2003 è inammissibile.
L'ordinanza, infatti, dà atto dell'avvenuto versamento
della somma da parte del ricorrente, di talché il
dubbio relativo all'illegittimità costituzionale
della norma che contempla detto versamento – sotto
il profilo della «grave disparità di trattamento
tra i cittadini» – è privo di rilevanza
nel giudizio a quo.
5.— Nel merito la questione proposta con le altre
ordinanze di rimessione è fondata.
5.1.— «Il principio, secondo il quale tutti
possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti
e interessi legittimi e la difesa è diritto inviolabile
in ogni stato e grado del procedimento, deve trovare attuazione
uguale per tutti, indipendentemente da ogni differenza di
condizioni personali e sociali» (cfr. sentenza n.
67 del 1960).
Alla luce di tale principio deve ritenersi che l'imposizione
dell'onere economico di cui all'art. 204-bis del d.lgs.
n. 285 del 1992 finisca con il pregiudicare l'esercizio
di diritti che l'art. 24 della Costituzione proclama inviolabili,
considerato che il mancato versamento comporta un effetto
preclusivo dello svolgimento del giudizio, incidendo direttamente
sull'ammissibilità dell'azione esperita.
5.2.— Giova rammentare come il problema – non
nuovo nella giurisprudenza di questa Corte – della
compatibilità tra il principio costituzionale che
garantisce a tutti la tutela giurisdizionale dei propri
diritti e singole norme che impongono determinati incombenti
(anche di natura economica) a carico di coloro che tale
tutela richiedano, sia stato risolto alla luce della distinzione
fra gli oneri che sono «razionalmente collegati alla
pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al
processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione»,
da ritenere evidentemente consentiti, e quelli che tendono,
invece, «alla soddisfazione di interessi del tutto
estranei alle finalità predette», i quali –
conducendo al risultato «di precludere o ostacolare
gravemente l'esperimento della tutela giurisdizionale»
– incorrono «nella sanzione dell'incostituzionalità»
(cfr. sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001).
Orbene, tale seconda evenienza è quella che ricorre
nel caso della disciplina censurata, considerate sia l'entità
economica dell'esborso, superiore alla misura della sanzione
generalmente inflitta in concreto ai trasgressori, sia soprattutto
le modalità di assolvimento dell'onere economico
de quo, destinate a tradursi in un procedimento macchinoso
nella fase tanto del versamento della somma quanto della
sua (eventuale) restituzione all'avente diritto.
Sotto altro aspetto, deve osservarsi che l'imposizione
in via generalizzata – da parte della norma censurata
– del suddetto onere a carico del soggetto che intenda
adire le vie giudiziali, in nessun modo funzionale alle
esigenze del processo, si risolve in un ostacolo, anche
per l'ammontare dell'esborso pari alla metà del massimo
edittale della sanzione, che finisce per scoraggiare l'accesso
alla tutela giurisdizionale.
Alla luce, dunque, delle considerazioni che precedono risulta
evidente la violazione dei citati parametri costituzionali,
sia sotto l'aspetto della lesione del diritto di difesa
del ricorrente, sia sotto l'aspetto della palese irragionevolezza
della norma in rapporto alle caratteristiche del procedimento
giurisdizionale in questione, improntato a «gratuità»
e «massima semplificazione per le parti», secondo
quanto stabilito dall'art. 23 della legge 24 novembre 1981,
n. 689 (Modifiche al sistema penale).
6.— L'accertata violazione degli articoli 3 e 24
della Costituzione assorbe le ulteriori censure dedotte
dai rimettenti.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art.
204-bis, comma 3, del decreto legislativo 30 aprile 1992,
n. 285 (Nuovo codice della strada), introdotto dall'art.
4, comma 1-septies, del decreto-legge 27 giugno 2003, n.
151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada),
aggiunto dalla legge di conversione 1° agosto 2003,
n. 214;
dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale del predetto art. 204-bis, comma 3, del decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada),
sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione,
dal Giudice di pace di Mestre, con l'ordinanza indicata
in epigrafe (r.o. n. 996 del 2003).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta il 5 aprile 2004.
F.to:
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Alfonso QUARANTA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2004.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
La redazione di megghy.com
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