Versione
stampabile
La Corte di Cassazione ha stabilito che l'assemblea dei
condomini non è competente a deliberare in materia
di spese fiscali riguardanti parti comuni dell'edificio.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SECONDA SEZIONE CIVILE
Sentenza 19.05.2004 n.9463
Svolgimento del processo
Con citazione 19 ottobre 1996, A. C., nella sua qualità
di condomina, convenne davanti al Tribunale di Avellino
il Condominio dell'edificio sito nella via .................
della suddetta città, in persona dell'amministratore
in carica, esponendo quanto segue.
Con atto 10 aprile 1989, assieme agli altri condomini ..............,
aveva permutato un appartamento di proprietà comune
sito nell'edificio con un tratto di giardino limitrofo,
appartenente a certi ..................
A ciascun condomino l'ufficio del Registro aveva notificato
un avviso di liquidazione, che negava i benefici fiscali
richiesti e accertava il maggior valore, contro cui ella
aveva fatto ricorso alla Commissione tributaria.
Il 29 agosto 1995, l'assemblea condominiale aveva deliberato
di fare propria l'istanza di condono presentata dal condomino
C. e, il 7 ottobre 1995, aveva deliberato di ripartire tra
i condomini secondo i millesimi di proprietà di ciascuno
la somma occorrente, pari a lire 6.660.000.
Avendo il 10 febbraio ed il 16 marzo 1996 la Commissione
tributaria accolto i suoi ricorsi, ella aveva fatto presente
all'assemblea di non dover pagare più nulla per il
condono. Nondimeno l'assemblea, nella riunione del 28 settembre
1996, aveva deliberato di autorizzare l'amministratore ad
agire nei suoi confronti per recuperare la somma di lire
979.000, quale quota della somma dovuta per il condono delle
tasse di registro, e aveva approvato un piano di riparto
delle ulteriori somme dovute.
Tutto ciò premesso, domandò al Tribunale
di dichiarare nulle o di annullare le suddette delibere
(29 agosto e 7 ottobre 1995 e 28 febbraio 1996, con vittoria
di spese.
Il Condominio, in persona dell'amministratore in carica,
si costituì, chiese il rigetto delle istanze avverse
e, in via riconvenzionale, domandò la declaratoria
dell'obbligo della attrice C. di corrispondere l'importo
di lire 1.052.520, eventualmente in via sussidiaria per
arricchimento senza causa.
Il Tribunale di Avellino, in composizione monocratica,
con sentenza 30 settembre-1° ottobre 1998, dichiarò
la nullità delle delibere, l'inammissibilità
della domanda riconvenzionale e condannò il condominio
alla rifusione delle spese.
Pronunziando sul gravame proposto dal Condominio, la Corte
d'Appello di Napoli, con sentenza 15 marzo-15 aprile 2000,
respinse l'appello e condannò l'appellante alla rifusione
delle spese.
Per quanto ancora interessa, si legge nella sentenza che
questo procedimento e quello relativo alla delibera 1°
marzo 1996 avevano oggetti formalmente diversi, ragion per
cui la riunione non era necessaria. Il fatto che il giardino
acquistato fosse diventato un bene condominiale non implicava
che rientrasse nei poteri dell'assemblea deliberare il pagamento
dell'imposta dovuta per il trasferimento, in quanto la pretesa
tributaria aveva come destinatari esclusivi ciascuno dei
contraenti la permuta, per cui il rapporto tributario riguardava
esclusivamente l'Amministrazione finanziaria e i singoli,
con esclusione del Condominio. Le delibere impugnate (29
agosto e 7 ottobre 1995), alle quali aveva partecipato un
delegato della C., non configuravano un atto negoziale vincolante
per la suddetta, perché non risultava la sottoscrizione
e la approvazione con la presenza e con il voto favorevole
di tutti gli aventi diritto. D'altra parte, il delegato
della C. non poteva manifestare una volontà negoziale.
Quanto alla domanda riconvenzionale, il Condominio era incorso
nella decadenza sancita dall'art. 167 comma 2 cod. proc.
civ. e, comunque, l'amministratore non era legittimato a
proporre l'azione di arricchimento.
Ricorre per cassazione il Condominio di via .............,
sempre in persona dell'amministratore in carica; resiste
con controricorso A. C..
Motivi della decisione
1. A fondamento del ricorso, con il primo motivo il Condominio
deduce violazione degli artt. 273 e 112 cod. proc. civ.
Il giudice d'appello nulla decide in ordine alla contestata
violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., per la mancata
riunione dei giudizi richiesta dalle parti. La sentenza
impugnata viola l'art. 112 cit., perché non ha esteso
la decisione a domande appartenenti anche ad altro giudizio
non riunito, e viola l'art. 273 cod. proc. civ. perché
con diverse sentenze ha deciso domande oggetto di diversi
giudizi pendenti presso il medesimo giudice.
1.2 Il motivo è inammissibile.
È risaputo che i provvedimenti del giudice del merito
in materia di riunione di procedimenti, ai sensi degli artt.
273 e 274 cod. proc. civ, in quanto implicanti accertamenti
di fatto e valutazioni ispirate a criteri di opportunità
e discrezionalità ordinatorie del procedimento, non
sono sindacabili in sede di legittimità (giurisprudenza
consolidata: cfr. Cass., Sez. III, 27 febbraio 2002, n.
7183. Per i precedenti: Cass., Sez. II, 12 dicembre 1977,
n. 5386).
2. Con il secondo mezzo, il ricorrente deduce violazione
degli artt. 1123 e 1108 (competenza dell'assemblea condominiale)
e dell'art. 1298 cod. civ. (rapporti interni tra debitori
e creditori solidali).
Escludere che il condominio abbia partecipato all'atto
di permuta non significa escludere che il bene permutato
dai singoli condomini sia un bene comune, come non significa
escludere che le decisioni inerenti alle spese della permuta
siano di competenza condominiale.
Poiché il giardino è di proprietà
comune le spese di registro inerenti alla permuta raffigurano
una obbligazione solidale di tutti i condomini, in quanto
inerente alla conservazione ed al godimento del bene comune.
Allo stesso tempo, la pretesa tributaria conseguente all'atto
riguarda tutti i condomini con il vincolo della solidarietà.
Per conseguenza il condominio non è estraneo alla
spesa e la materia non è estranea alle attribuzioni
assembleari.
2.2 Il motivo non è fondato.
Per la verità, è irrilevante il fatto che
il bene sia comune, per essere stato acquistato da tutti
i comproprietari dei diversi appartamenti siti nell'edificio
e destinato a vantaggio di tutte le unità immobiliari
site nell'edificio. In effetti, l'assemblea dei condomini
non è competente a deliberare in materia di spese
concernenti le imposte relative all'acquisto di un bene
destinato all'uso comune.
È noto che all'assemblea dei condomini i poteri
sono conferiti specificamente dalla legge. Poiché
l'assemblea decide con il metodo collegiale e con il principio
di maggioranza, vincolando anche i condomini assenti e dissenzienti,
l'assemblea raffigura una sorta di autorità privata,
cui è riconosciuto un potere insolito nel sistema
del diritto privato, dominato dal modello dell'autonomia,
in cui i singoli sono vincolati soltanto dagli atti posti
in essere con la loro volontà. Orbene, per conseguire
interessi generali e, precisamente, per superare l'inerzia,
che inevitabilmente deriverebbe dal recepimento del principio
romanistico dello ius prohibendi, per cui un solo condomino
dissenziente potrebbe paralizzare l'attività del
collegio, la legge consente all'assemblea di deliberare
a maggioranza, previo espletamento del procedimento in che
consiste il metodo collegiale (convocazione di tutti i partecipanti
con ordine del giorno, costituzione, discussione, votazione,
verbalizzazione etc.).
Peraltro, in considerazione dell'efficacia vincolante anche
nei confronti dei condomini assenti e dissenzienti, il potere
dell'assemblea di decidere a maggioranza è circoscritto
a materie ben definite. In particolare, per quanto concerne
le spese per le cose comuni, l'assemblea delibera e ripartisce
le spese per la "gestione" ordinaria e straordinaria
(artt. 1135 nn. 2 e 4, 1120, 1123, 1128 cod. civ.).
Trattandosi di obbligazioni propter rem, ascritte ai condomini
come conseguenza del diritto di comproprietà, l'assemblea
può decidere se intraprendere o no le spese suddette
e suddividerle tra i partecipanti in proporzione alle quote,
ma non può approvare le spese per le parti comuni
in materie non contemplate dal codice, né suddividerle
in misura difforme dalle quote.
Avuto riguardo ai principi esposti, poiché i poteri
dell'assemblea sono circoscritti alle materie definite,
che sinteticamente si compendiano nel concetto di gestione,
non è conforme al sistema della legge l'opinione,
che all'assemblea assegna una competenza generalizzata in
tema di spese per le parti comuni. Non tutte le spese afferenti
alle parti comuni, infatti, appartengono alla competenza
dell'assemblea. Non si comprendono certamente nella competenza
dell'assemblea le spese concernenti la attribuzione, vale
a dire la titolarità delle parti comuni, posto che
la disposizione del diritto riguarda individualmente i singoli
condomini, i quali operano con lo strumento proprio dell'autonomia
privata, vale a dire con il negozio.
Perciò, non entrano nella competenza dell'assemblea
le spese fiscali riguardanti parti comuni dell'edificio,
quando si tratta di spese afferenti all'acquisto del diritto
sui beni comuni e non alla gestione di essi. Come gli atti
di trasferimento intercorrono tra i terzi ed i singoli condomini,
del pari i rapporti tributari si instaurano tra l'Amministrazione
finanziaria ed i singoli partecipanti al condominio.
L'assemblea, quindi, non può deliberare e ripartire
tra i condomini i tributi dovuti dai singoli per l'acquisto
di beni destinati al servizio comune anche se detti beni
appartengono in comune a tutti i condomini.
Del tutto fuorviante appare il discorso sulla solidarietà.
Ammesso che tra i condomini sussista solidarietà
per le spese comuni (il che è contestato: di diverso
avviso Cass., Sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530: le obbligazioni
assunte per le cose, gli impianti ed i servizi comuni non
vincolano in solido i condomini, che rispondono unicamente
per la propria parte nei limiti fissati dall'art. 1123 cod.
civ.), questa eventualmente si esplicherebbe nei rapporti
esterni tra i condomini ed i terzi (l'Amministrazione finanziaria),
non certo nei rapporti interni tra i singoli condomini ed
il condominio.
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione
dell'art. 1421.
L'asserto del condominio, secondo cui le delibere racchiudevano
un negozio vincolante per la C.o, non raffigura una domanda
riconvenzionale, ma una mera eccezione, non soggetta ai
termini di decadenza di cui agli artt. 166 e 167 cod. proc.
civ.
Per la verità, ambedue le deliberazioni sono sottoscritte
da tutti i condomini intervenuti (nella seconda si dice
che i condomini intervenuti sottoscrivono anche per recezione
dell'avviso di convocazione della prossima assemblea). Il
fatto che fossero presenti o meno tutti gli aventi diritto
non rileva, in quanto nella specie si discute della volontà
negoziale espressa all'unanimità dai condomini intervenuti,
tra i quali la C., la quale aveva conferito una valida delega
per iscritto.
3.1 Anche questo motivo è destituito di fondamento.
Non giova insistere sulla esistenza e sulla validità
della volontà negoziale della ricorrente, manifestata
in occasione delle riunioni assembleari, in quanto appare
decisivo che, nella specie, non sussiste un negozio stipulato
in assemblea da tutti i condomini.
È pur vero che, in occasione di una riunione assembleare,
i condomini possono stipulare un negozio giuridico: sempre
che manifestino consapevolmente la concorde volontà
di porre in essere un atto di autonomia, e non di votare
una delibera. Ma per il perfezionamento del negozio appare
indispensabile la presenza e la volontà di tutti
i partecipanti al condominio.
Trattandosi di un negozio plurilaterale - in quanto le
prestazioni di ciascun condomino sono dirette ad uno scopo
Comune (il pagamento dell'intera somma) - la presenza e
la volontà concorde di tutti è essenziale.
Per l'esistenza di un negozio stipulato dai condomini, che
vincoli l'intero gruppo dei partecipanti al gruppo - e consegua
lo scopo comune (nella specie, configurato dall'intendimento
a prestare lo strumento per adempiere, vale a dire di raccogliere
l'intera somma richiesta dall'Amministrazione finanziaria)
- è necessaria la presenza ed il consenso d i tutti
gli aventi diritto.
Il che nella specie non sussiste, essendo incontroverso,
in fatto, che alle riunioni non abbiano partecipato tutti
i condomini.
4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce omessa ed
incompleta motivazione e violazione dell'art. 2041 cod.
civ., in quanto l'amministratore è legittimato a
sostenere la validità del deliberato assembleare
anche in via sussidiaria e sotto il profilo dell'arricchimento
senza causa (il punto non era stato sollevato dalle parti
e la sentenza lo decide in modo abnorme).
4.1 Neppure questo motivo è fondato.
Per la verità l'amministratore non ha una generalizzata
legittimazione attiva per tutto ciò che concerne
le cose comuni.
A norma dell'art. 1131 C.C. l'amministratore, senza la
necessità di una specifica deliberazione assembleare,
è legittimato ad agire in giudizio nei confronti
dei singoli condomini e dei terzi nelle materie specificamente
contemplate e precisamente: a) l'esecuzione delle deliberazioni
dell'assemblea dei condomini; b) la disciplina dell'uso
delle cose comuni, così da assicurare il godimento
a tutti i partecipanti al condominio; c) la riscossione
dai condomini dei contributi in base allo stato di ripartizione
approvato dall'assemblea; d) il compimento degli atti conservativi
dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio. Tra
queste materie evidentemente non si comprende la proposizione
dell'azione di indebito arricchimento. Essendo la sua legittimazione
attiva ristretta alle materie che formano oggetto delle
attribuzioni sostanziali (art. 1131 comma 1 cod. civ.),
l'amministratore di un condominio convenuto in giudizio
avente ad oggetto parti comuni dell'edificio può
proporre una domanda riconvenzionale soltanto se munito
di specifico mandato, non essendo sufficiente il potere,
conferitogli dall'art. 1131 comma 2 cod. civ., di resistere
alla domanda della controparte. Infatti, chi agisce in riconvenzione
utilizza il processo iniziato contro di lui per far valere
pretese proponibili anche in autonomo giudizio, così
assumendo a tutti gli effetti la veste di attore (Cass.,
Sez. II, 24 ottobre 1978, n. 4807).
D'altra parte, il riconoscimento all'amministratore della
generale legittimazione passiva per tutto ciò che
concerne le parti comuni si spiega con la tutela dei terzi,
i quali in tal modo non incontrano difficoltà nella
individuazione del soggetto passivo per le questioni riguardanti
le parti comuni.
5. Con l'ultimo motivo, infine, il ricorrente denuncia
violazione ed erronea applicazione degli artt. 166, 167
comma 2 e 168-bis cod. proc. civ., posto che i venti giorni
per la costituzione del convenuto vanno computati rispetto
alla prima udienza effettiva e non rispetto a quella indicata
dalla parte nell'atto di citazione.
5.1 L'esclusione della legittimazione attiva dell'amministratore
in ordine alla pretesa avanzata comporta l'assorbimento
di questo motivo.
6. Il ricorso, quindi, deve essere rigettato.
Sussistono giusti motivi per compensare integralmente le
spese processuali.
Per questi motivi
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Depositata in Cancelleria il 19 maggio 2004.
La redazione di megghy.com
|