Versione
stampabile
La Corte di Cassazione ha stabilito che “la sindrome
ansioso – depressiva può costituire causa di
differimento della pena quanto assuma aspetti di tale gravità
da non essere fronteggiabili in ambiente carcerario o addirittura
assuma caratteri della infermità psichica sopravvenuta”.
Le motivazioni della sentenza
Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, Sentenza n.35741/2004
Fatto e Diritto
Il Tribunale di sorveglianza di Torino esaminava in primo
luogo la richiesta del F. volta al riconoscimento dello
status di collaboratore di giustizia ai fini dell’ottenimento
della detenzione domiciliare, consentita ai sensi dell’art.
58 ter O.P. [1] anche per i condannati per reati ostativi
ai sensi dell’art. 4- bis O.P.
Rilevava che le informazioni acquisite consentivano di
escludere che il F. avesse compiuto un’attività
di collaborazione o che si trovasse nella particolare situazione
di non aver potuto collaborare per aver avuto una minima
partecipazione nella struttura associativa e che pertanto
l’istanza conseguente di detenzione domiciliare doveva
essere dichiarata inammissibile.
Passava quindi ad esaminare la richiesta di differimento
pena e concessione della detenzione domiciliare ai sensi
dell’art. 47 ter comma 1 ter, cioè in caso
dell’esistenza di gravi ragioni di salute, e rilevava
che il F. risultava affetto da una condizione depressiva
di carattere reattivo alla detenzione, con una ricaduta
sul piano fisico costituita da un importante calo ponderale,
pari a oltre trenta chili.
Sollevava perplessità sul fatto che mentre una relazione
clinica del 14/2/2004 rilevava che il detenuto era in cura
con antidepressivi e che le condizioni generali erano compatibili
con il regime detentivo, una seconda relazione medica del
5/3/2004, ad una distanza di soli venti giorni, concludeva
in senso del tutto difforme, affermando che la prosecuzione
del regime detentivo poteva aggravare ulteriormente le condizioni
di salute.
La Corte territoriale rilevava ancora che la sindrome ansioso-
depressiva, pur di significativa gravità, non era
in grado di porre in pericolo di vita il detenuto e quindi
ai sensi dell’art. 147 comma 1 n. 2 c.p. non sussisteva
nessuna delle due condizioni (prognosi infausta quad vitam
o cure che non possono essere praticate in carcere) che
consentivano il differimento nell’esecuzione della
pena.
Aggiungeva poi che anche valutando il fatto alla luce del
rispetto del principio di umanità della pena e della
necessità di evitare una sua abnorme afflittività,
nel caso di specie il detenuto era in grado di partecipare
al programma rieducativo della pena e di compiere i normali
atti della vita quotidiana.
Contro la decisione presentava ricorso il condannato deducendo
violazione di legge in relazione all’omesso riconoscimento
dello status di collaboratore di giustizia ed al conseguente
diritto ad accedere alle misure alternative alla detenzione,
anche in presenza di titoli di reato ostativi, in quanto
il Tribunale avrebbe omesso di considerare che la collaborazione
vi era stata e che se non aveva potuto collaborare e che
se non aveva potuto collaborare ulteriormente ciò
era dovuto alla sua minore partecipazione ai fatti.
Deduceva ancora che per le sue condizioni di salute, eccezionalmente
gravi, aveva comunque diritto al differimento della pena,
prevista dagli artt. 147 e 148 c.p. in relazione all’art.
47 ter comma 1 ter O.P.
Con memoria presentata successivamente produceva documentazione
medica consistente in pareri sulle condizioni di salute
e sulla incompatibilità col regime carcerario.
La Corte rileva che il primo motivo di ricorso deve essere
rigettato in quanto la valutazione operata dal Tribunale
sull’impossibilità di riconoscere lo status
di collaborante appare conforme a legge ed agli accertamenti
compiuti.
Deve sottolinearsi infatti che la giurisprudenza di legittimità
ha sempre affermato che la qualità di collaboratore
a norma dell’art. 58 ter O.P. non può formare
oggetto di una pronuncia dichiarativa fine a se stessa,
mirante al preventivo riconoscimento dello status, ma deve
essere accertata all’interno del procedimento di merito
attivato dalla richiesta di uno dei benefici penitenziari
(Sez. I 19 aprile 1999 n. 1865 ric. Sparta, rv. 213066,
Sez. I 18 gennaio 1998 n. 5885, ric. Piras, rv. 212201)
e nel caso di specie questo accertamento è stato
correttamente compiuto ed ha condotto alla conclusione che
il condannato non ha mai collaborato e non si trovava nelle
condizioni di inesigibilità della collaborazione
per cui nei suoi confronti opera il divieto di ammissione
alla detenzione domiciliare previsto per i reati contemplati
all’art. 4- bis O.P.
Il secondo motivo di ricorso volto ad ottenere la detenzione
domiciliare in alternativa al differimento della pena per
gravi motivi di salute merita accoglimento, con annullamento
con rinvio.
Deve ribadirsi l’orientamento già espresso
dalla Suprema Corte in merito alla nozione di grave infermità
fisica, secondo cui non è tra esse annoverabile la
debilitazione conseguente ad esempio ad anoressia (Sez.
I 21 agosto 1997 n. 4574, ric. Particò, rv. 208423),
ma deve anche ricordarsi che la sindrome ansioso- depressiva
può costituire causa di differimento della pena quando
assuma aspetti di tale gravità da non essere fronteggiabili
in ambiente carcerario o addirittura assuma i caratteri
della infermità psichica sopravvenuta (Sez. I 10
dicembre 1996 n. 5282, ric. Ciancimino, rv. 206329).
La motivazione della sentenza sul punto appare contraddittoria
laddove da un lato si ritiene non credibile un aggravamento
delle condizioni in soli venti giorni e dall’altro
si ritiene a tal punto grave la situazione da richiedere
un controllo assiduo da parte della struttura carceraria.
Premesso che non è conforme alla più recente
giurisprudenza di legittimità richiedere per il differimento
della pena il requisito della prognosi infausta quoad vitam
(vedasi per tutte Sez. I 15 novembre 1999 n. 5715, ric.
Di Girolamo, rv. 214419), dovendosi invece valutare se le
condizioni di salute, ritenute gravi, facciano sì
che l’espiazione della pena appaia contraria al senso
di umanità per le eccessive sofferenze da essa derivanti,
deve nel caso di specie valutarsi se la perdita di peso
di oltre trenta chili, in un soggetto che partiva da un
peso di 111 kg, costituisca sintomo o conseguenza di un
grave stato di malattia ai sensi ed ai fini degli artt.
147 (o 148) c.p..
PQM
La Corte annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per
nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Torino.
Depositata in Cancelleria il 31 agosto 2004.
La redazione di megghy.com
|