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La custodia cautelare all’estero
in conseguenza di una domanda di estradizione presentata
dallo Stato deve essere computata anche agli effetti della
durata dei termini di fase previsti dall’art. 303,
commi 1, 2 e 3, del codice penale.
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, con la sentenza
n. 253 del 21 luglio 2004, dichiarando l'illegittimità
costituzionale dell’art. 722 cod. proc. pen. per contrasto
con l'art. 3 della Cost. in quanto prevedeva un'irragionevole
disparità di trattamento dell’imputato detenuto
all’estero in attesa di estradizione rispetto all’imputato
in custodia cautelare in Italia.
SENTENZA N. 253
ANNO 2004
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gustavo ZAGREBELSKY Presidente
- Valerio ONIDA Giudice
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfonso QUARANTA "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
722 del codice di procedura penale, promosso, nell’ambito
di un procedimento penale, dalla Corte di cassazione con
ordinanza in data 8 ottobre 2003, depositata il 7 novembre
2003, iscritta al n. 1149 del registro ordinanze 2003 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
3, prima serie speciale, dell’anno 2004.
Visto l’atto di costituzione della parte privata;
udito nell’udienza pubblica dell’8 giugno 2004
il Giudice relatore Guido Neppi Modona;
udito l’avvocato Francesca Conte per la parte privata.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza in data 8 ottobre 2003 la Corte
di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3
e 13 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 722 del codice di procedura
penale, «nella parte in cui prevede che la custodia
cautelare all’estero dell’estradando non rileva
ai fini del computo dei termini di fase».
La Corte di cassazione premette:
- che nei confronti di un imputato per i reati di cui agli
artt. 73 e 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, era stata
emessa ordinanza di custodia cautelare rimasta ineseguita
e che l’imputato era poi stato tratto in arresto in
Olanda il 29 marzo 1999, a seguito di richiesta di estradizione
avanzata dall’autorità giudiziaria italiana;
- che successivamente l’imputato era stato condannato
con sentenza del 16 settembre 1999 dal Tribunale di Lecce
alla pena di 14 anni di reclusione, sentenza confermata
dalla Corte di appello di Lecce, che aveva ridotto la pena
a 12 anni di reclusione, e poi annullata con rinvio dalla
Corte di cassazione con sentenza del 1° luglio 2002;
- che l’imputato era stato estradato dall’Olanda
solo il 9 gennaio 2003 e che da tale data era detenuto in
Italia;
- che l’imputato aveva presentato richiesta di scarcerazione
per decorrenza dei termini di custodia cautelare, in quanto
a seguito della regressione del procedimento in grado di
appello dopo l’annullamento disposto dalla Cassazione
risultava ormai superato il doppio dei termini di fase;
- che tale richiesta era stata respinta sia dalla Corte
di appello che dal Tribunale del riesame, sul presupposto
che il dettato dell’art. 722 cod. proc. pen. fa riferimento
esclusivamente al termine complessivo e che pertanto il
termine di fase doveva essere calcolato esclusivamente a
partire dal momento in cui l’imputato era stato arrestato
nel territorio italiano, cioè a far data dal 9 gennaio
2003;
- che il difensore dell’imputato aveva proposto ricorso
per cassazione deducendo la violazione e l’errata
applicazione degli artt. 303, 304 e 722 cod. proc. pen.,
osservando, anche alla luce delle recenti decisioni interpretative
della Corte costituzionale, «le quali si riverberano
necessariamente sulla interpretazione ed applicazione dell’art.
722 cod. proc. pen.», che a seguito del regresso del
procedimento conseguente all’annullamento con rinvio
in primo grado, risultava superato il doppio del termine
di fase, e cioè tre anni.
Nel merito, la Cassazione osserva che, secondo la sua stessa
giurisprudenza, l’art. 722 cod. proc. pen. va interpretato
nel senso che la detenzione cautelare subita dal cittadino
all’estero è computabile soltanto ai fini dei
termini complessivi di custodia cautelare e non anche dei
termini di fase, e che tale disciplina è stata ritenuta
non irragionevole, in quanto la situazione della persona
sottoposta a misura cautelare in Italia è diversa
rispetto a quella di chi è sottoposto ad analoga
misura all’estero in attesa della definizione del
procedimento di estradizione.
D’altro canto, l’interpretazione seguita dalla
Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 292 del
1998 e sino all’ordinanza n. 243 del 2003, per la
quale il doppio del termine di fase va calcolato «addizionando
periodi di detenzione, anche eventualmente sofferti in fase
diversa da quella in cui il procedimento è regredito»,
non sarebbe «pacificamente applicabile alla fattispecie
[…] in esame, dovendosi ritenere, alla luce della
giurisprudenza di legittimità prima citata, che il
doppio del termine di fase debba calcolarsi a far tempo
dal momento in cui l’interessato abbia varcato la
soglia di un istituto penitenziario nazionale».
La disciplina censurata - conclude la Corte di cassazione
- sembra pertanto porsi in contrasto, dopo le menzionate
decisioni della Corte costituzionale, «con i principi
di cui agli artt. 3 e 13 della Carta costituzionale, nella
parte in cui prevede che la custodia cautelare all’estero
non rilevi ai fini del computo dei termini di fase».
2. – Si è costituito in giudizio l’imputato
sottoposto a misura cautelare, concludendo per l’accoglimento
della questione.
La difesa della parte privata ricorda che la Corte di cassazione
ha sempre ritenuto la norma censurata aderente ai principi
costituzionali e rileva che tale orientamento giurisprudenziale
- se poteva essere ritenuto coerente con l’indirizzo
secondo cui la detenzione dell’imputato all’estero,
conseguente a domanda di estradizione presentata dallo Stato
italiano, non costituisce legittimo impedimento a comparire
- risulta definitivamente superato da una recente decisione
con la quale le Sezioni unite hanno equiparato la situazione
dell’imputato detenuto in Italia a quella dell’imputato
detenuto a fini estradizionali all’estero. Si imporrebbe
pertanto «una rivisitazione in bonam partem»
della disciplina denunciata, conforme ai principi di cui
agli artt. 3 e 13 Cost.: e ciò tanto più nel
caso di specie, in cui «lo Stato richiesto (l’Olanda)
aveva già concesso l’estradizione allo Stato
richiedente (l’Italia) e [l’imputato] aveva,
per tabulas, espresso la precisa volontà di presenziare
in Italia».
Le argomentazioni poste dalla Corte costituzionale a fondamento
della sentenza n. 292 del 1998 e delle successive ordinanze
indurrebbero a «ritenere invalicabile il limite del
doppio dei termini di fase previsti dall’art. 303,
comma 1, cod. proc. pen.» sia per il detenuto all’estero
che per il detenuto in Italia e «costituzionalmente
obbligata in forza del valore espresso dall’art. 13
Cost.» l’interpretazione secondo cui la custodia
cautelare perde efficacia allorché tale limite sia
stato superato per qualsiasi causa, anche se l’imputato
è detenuto all’estero in attesa di estradizione.
3. - Nell’udienza pubblica la difesa della parte
privata ha ribadito e sviluppato le osservazioni svolte
nella memoria di costituzione.
Considerato in diritto
1. - La questione di legittimità costituzionale
sollevata dalla Corte di cassazione ha per oggetto l’art.
722 del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede
che la custodia cautelare subita all’estero in conseguenza
di una domanda di estradizione presentata dallo Stato italiano
non rileva ai fini del computo dei termini di fase.
La Corte di cassazione rimettente - chiamata a pronunciarsi
sul ricorso di un imputato che, essendo stato detenuto all’estero
a fini estradizionali dal 29 marzo 1999 al 9 gennaio 2003,
aveva chiesto la scarcerazione per decorrenza del doppio
dei termini di fase a seguito del regresso del procedimento,
deducendo la violazione degli artt. 303, 304 e 722 cod.
proc. pen. – rileva che, secondo la sua stessa giurisprudenza,
la detenzione subita dal cittadino all’estero è
computata ai soli effetti della durata complessiva della
custodia cautelare, e non anche dei termini di fase, in
base al presupposto che la situazione del soggetto detenuto
all’estero in attesa di estradizione non è
equiparabile a quella di chi è sottoposto a custodia
cautelare in Italia.
Alla luce di tale indirizzo giurisprudenziale, secondo
la Corte di cassazione il doppio dei termini di fase dovrebbe
essere calcolato a far tempo dal momento in cui il detenuto
ha «varcato la soglia di un istituto penitenziario
italiano», e pertanto al caso in esame non sarebbe
«pacificamente» applicabile la disciplina relativa
al computo dei termini di fase in caso di regresso del procedimento,
secondo l’interpretazione seguita dalla Corte costituzionale
a partire dalla sentenza n. 292 del 1998.
La norma censurata, interpretata nel senso che la detenzione
all’estero non rileva ai fini del computo dei termini
di fase, si porrebbe quindi in contrasto con i principi
di cui agli artt. 3 e 13 della Costituzione.
2. - La questione è fondata.
3. - Il testo attualmente in vigore dell’art. 722
cod. proc. pen. è frutto delle modifiche introdotte
dall’art. 10 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306,
convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356. Il testo originario
prevedeva che la detenzione all’estero a fini estradizionali
fosse computata nella durata della custodia cautelare secondo
le regole generali, e quindi anche ai fini della decorrenza
dei termini di fase, ferma restando la sospensione nella
fase del giudizio durante il tempo in cui il dibattimento
fosse sospeso o rinviato per impedimento dell’imputato
(tale ritenendosi, secondo la relazione al Progetto preliminare
del codice, la carcerazione subita all’estero a seguito
di una domanda di estradizione), nonché la proroga
prevista dall’art. 305 cod. proc. pen. ove la custodia
dell’imputato nel territorio dello Stato fosse necessaria
per il compimento di attività probatorie.
Nella relazione al decreto-legge n. 306 del 1992 il computo
del periodo di detenzione all’estero solo ai fini
della durata complessiva della custodia cautelare è
giustificato dal «fatto che le fasi precedenti alla
procedura di estradizione sfuggono alla disponibilità
dello Stato italiano» e che da vari paesi che offrono
all’Italia cooperazione internazionale era «venuta
la richiesta di poter usufruire di maggior tempo per lo
svolgimento delle procedure estradizionali».
Sebbene la nuova disciplina sia stata oggetto di critiche
perché avrebbe privilegiato le esigenze processuali
a scapito della tutela della libertà personale, la
giurisprudenza di legittimità ne ha in più
occasioni sostenuto la ‘ragionevolezza’, rilevando
che la durata della detenzione non è ricollegabile
all’inerzia dell’autorità giudiziaria
nazionale, ma deriva da una situazione volontariamente creata
dalla persona sottoposta alle indagini, rifugiatasi o comunque
trasferitasi all’estero.
L’art. 15 della legge 8 agosto 1995, n. 332, ha poi
integralmente sostituito l’art. 304 cod. proc. pen.,
nel cui comma 6 è stata collocata la disciplina del
termine finale complessivo della custodia cautelare (prima
contenuta nel comma 4, oggetto di richiamo nella norma impugnata)
e sono stati introdotti i termini finali di fase. La giurisprudenza
di legittimità non ha peraltro modificato l’interpretazione
dell’art. 722 cod. proc. pen., giungendo in un caso
ad affermare espressamente (Cass., sez. VI, sentenza n.
555 del 22 settembre 2000) che il richiamo operato da tale
norma al comma 4 (ora 6) dell’art. 304 cod. proc.
pen. si sostanzia in un rinvio ricettizio (o materiale)
al contenuto del comma vigente al momento della modifica
dell’art. 722; con la conseguenza che, ai fini della
durata della custodia cautelare all’estero, non solo
non sarebbe rilevante la distinzione tra termini finali
di fase e termine finale complessivo, ma quest’ultimo
dovrebbe essere ancora calcolato esclusivamente con riferimento
ai due terzi della pena massima prevista per il reato contestato
o ritenuto in sentenza (e non, come da ultimo stabilito,
con riferimento ai termini di durata complessiva previsti
dall’art. 303, comma 4, cod. proc. pen. aumentati
della metà, ovvero, solo se più favorevole,
al limite dei due terzi del massimo della pena prevista
per il reato contestato).
4. - Le vicende legislative degli artt. 722 e 304, comma
6, cod. proc. pen.; la decisione di questa Corte che, con
riferimento all’art. 3 Cost., ha affermato, al fine
di ritenere sussistente il legittimo impedimento a comparire,
che la detenzione dell’imputato all’estero,
concretando comunque «un fatto materiale di impossibilità
a comparire», non può essere «assunta
a ragionevole presupposto di una diversità di trattamento»
rispetto alla detenzione in Italia (sentenza n. 212 del
1974); la recente pronuncia (n. 21035 del 2003) con cui
le Sezioni unite della Corte di cassazione, conformemente
a precedenti relativi alla piena fungibilità tra
la custodia cautelare sofferta in Italia e quella subita
all’estero, hanno affermato che anche la detenzione
all’estero a fini di estradizione costituisce legittimo
impedimento a comparire, in quanto a nulla rileva che l’imputato
non abbia prestato il consenso all’estradizione, sono
tutti elementi che concorrono a dimostrare l’illegittimità
costituzionale della disciplina censurata.
In effetti, una volta affermata l’equivalenza tra
detenzione cautelare all’estero in attesa di estradizione
e custodia cautelare in Italia, evidenti motivi di razionalità
e coerenza interna del sistema impongono di applicare alla
custodia cautelare all’estero la medesima disciplina
prevista per la durata dei termini di custodia cautelare
in Italia. In particolare, rientrando anche la detenzione
all’estero tra i motivi di legittimo impedimento a
comparire che determinano la sospensione del decorso dei
termini di custodia cautelare previsti dall’art. 304,
comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non vi è alcuna
ragione che possa giustificare per la detenzione all’estero
una disciplina diversa da quella prevista dagli artt. 303
e 304, comma 6, cod. proc. pen. per la durata dei termini
massimi della custodia cautelare in Italia.
L’irragionevole disparità di trattamento dell’imputato
detenuto all’estero in attesa di estradizione rispetto
all’imputato in custodia cautelare in Italia determina
quindi, in riferimento all’art. 3 Cost., l’illegittimità
costituzionale dell’art. 722 cod. proc. pen., nella
parte in cui non prevede che la custodia cautelare all’estero
in conseguenza di una domanda di estradizione presentata
dallo Stato sia computata anche agli effetti della durata
dei termini di fase previsti dall’art. 303, commi
1, 2 e 3, dello stesso codice.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
722 del codice di procedura penale, nella parte in cui non
prevede che la custodia cautelare all’estero in conseguenza
di una domanda di estradizione presentata dallo Stato sia
computata anche agli effetti della durata dei termini di
fase previsti dall’art. 303, commi 1, 2 e 3, dello
stesso codice.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2004.
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Guido NEPPI MODONA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2004.
Con sent. n. 22 del 30/03/04, il GDP di Agrigento ha dichiarato
di non doversi procedere nei confronti di un imputato del
reato di cui all'art. 186 c. II C.d.S., riconoscendo estinto
il reato per "avvenuta condotta riparatoria del danno".
Nel caso di specie, il Giudice ha ritenuto che il versamento
di una somma a favore di una comunità terapeutica
per il recupero di persone dedite all’uso di bevande
alcoliche soddisfacesse le esigenze riparatorie e di riprovazione
richieste dall’art. 35 "Estinzione del reato
conseguente a condotte riparatorie" del D. lgs 274/2000
"Disposizioni sulla competenza penale del giudice di
pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999,
n. 468".
(Altalex, 21 luglio 2004. Si ringrazia per la segnalazione
l' Avv. Giuseppina Ganci)
N. 22/04 R Sent.
N. 04/03.G.P.
N. 395/02 RGNR.
Sentenza in data
17/03/04
Depositata in cancelleria
Il 30/03/04
GIUDICE DI PACE DI AGRIGENTO
.................
Conclusioni delle parti
Il P.M. chiede non doversi procedere perché il reato
è estinto per ravvedimento operoso.
La difesa si associa.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO.
D. D. veniva tratto in Giudizio sdavanti a questo Giudice
di Pace con decreto del 12/11/03, notificato 17/11/2003
per rispondere del reato ascrittogli in rubrica.
Prima dell’apertura del dibattimento l’imputato
chiedeva la sospensione del processo per consentirgli di
porre in essere la condotta riparatoria di cui all’art.
35 D.L.VO 274/2000 e pervenire all’estinzione del
reato in conseguenza del versamento di una somma di danaro
che lo stesso intendeva versare in favore di un Istituto
che si occupa del recupero degli alcolici dipendenti, chiedendo
al Giudice di volere indicare l’ammontare dell’importo
e l’istituto beneficiario.
Il P.M. non si opponeva.
Il Giudice di Pace sospendeva il processo fino al 16/03/2004
fissando la successiva udienza per la verifica dell’effettivo
svolgimento dell’attività riparatoria imponendo
all’imputato il pagamento della somma di € 700,00
in favore dell’ Associazione CASA FAMIGLIA ROSETTA
corrente in Caltanissetta ed indicando nella causale del
versamento “Donazioni alla Comunità Oasi di
Caltagirone per alcolisti, indicando, altresì, per
la verifica dell’attività riparatoria il responsabile
del servizio nella persona di Nino Amico.
All’udienza del 17/03/2004 la difesa produceva ricevuta
di versamento a mezzo di bonifico bancario per € 700,00
intestato all’Istituto prescritto.
Il P.M. non si opponeva
MOTIVAZIONE
Prima dell' apertura del dibattimento D.D. chiedeva, a mezzo
proprio procuratore, la sospensione del processo per consentirgli
di porre in essere la condotta riparatoria di cui all'art.35
D.LVO 274/2000.
Il Giudice sospendeva il processo ed indicava l'ammontare
dell' importo e l’Istituto beneficiario.All’udienza
successiva del 17/03/04, prodotta attestazione di pagamento
all’Istituto beneficiario, della somma di € 700,00,
le parti concludevano come in epigrafe.
Il pagamento della superiore, risultante dalle predette
attestazioni di pagamento, sussistendo le altre condizioni,
tra cui l’incensuratezza dell’imputato risultante
dal certificato del casellario giudiziale, estingue il reato
contestato, ai sensi dell’art. 35 del D. lgs 274/2000.
Invero, deve pronunciarsi sentenza di non doversi procedere
in ordine al reato di cui all’art. 186 comma II C.d.S.
quando il versamento di una somma a favore di una comunità
terapeutica per il recupero di persone dedite all’uso
di bevande alcoliche soddisfano le esigenze riparatorie
e di riprovazione richieste da quanto disposto all’art.
35 del D. lgs 274/2000.
Ne consegue che va pronunciata sentenza di non doversi
procedere nei confronti dell’imputato in ordine al
reato di cui in rubrica.
P.Q.M.
Visti gli artt. 531 c.p.p. e 35 D. lgs
Dichiara
Non doversi procedere nei confronti di D.D. perché
il reato è estinto per avvenuta condotta riparatoria
del danno.
Agrigento, 17/03/2004 Il Giudice di Pace
Avv. Antonino Raineri
dal sito: wwwaltalex.com
La redazione di megghy.com
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