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la Corte di Cassazione,ha stabilito con la sentenza
n.12477 del 7 luglio 2004,che allorquando un figlio si sia
reso autonomo, non sono più ipotizzabili nè
un suo rientro o una sua permanenza in famiglia.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
SENTENZA 7 luglio 2004, n. 12477
Svolgimento del processo
Con citazione innanzi al tribunale di Grosseto, la curatela
del Fallimento della (omissis) e, tra gli altri, del socio
(omissis) conveniva (omissis) esponendo che il padre della
stessa e del fallito (omissis) (omissis) deceduto il (omissis)
nel proprio testamento olografo aveva istituito sua unica
erede la prima mentre aveva pretermesso il secondo con evidente
lesione di legittima, onde chiedeva che la convenuta venisse
condannata alla restituzione in favore del fratello di quanto
relitto dal padre sino alla concorrenza della quota di legge.
Costituendosi, (omissis) eccepiva, per quanto ancora interessa,
che, ove collazionate le elargizioni di danaro effettuate
in vita dal de cuius in favore del fratello (omissis) nessuna
lesione di legittima sarebbe risultata.
Con sentenza 4.5.98, l'adito tribunale, in composizione
monocratica, accertato il relictum in L. 263.000.000, escludendo
dalla riunione fittizia sia un credito di L. 49.200.000
iscritto al passivo fallimentare in favore del de cuius
per prestito all'impresa del figlio sia le elargizioni effettuate
dallo stesso de cuius direttamente al figlio per L. 130.000.000
in quanto donazioni nulle per difetto di forma, determinava
la legittima spettante al fallito in L. 87.666.666 e, dedotto
il debito di questi, in L. 38.4 66.666 la quota di legittima
di sua spettanza alla corresponsione della qualecondannava
la convenuta.
Avverso tale decisione (omissis) proponeva gravame cui
resisteva il Fallimento contestualmente proponendo gravame
incidentale.
D'entrambi decideva la corte d'appello di Firenze con sentenza
11.5.00 accogliendo il primo e respingendo il secondo, con
consequenziale reiezione dell'originaria domanda, sulla
considerazione che il credito del de cuius verso l'erede
per L. 49.200.000, comprovato e riconosciuto con la stessa
iscrizione al passivo fallimentare, dovesse essere ricompreso
nel relictum non a titolo di collazione ma ai fini della
riunione fittizia e che le elargizioni dello stesso de cuius
all'erede per L. 130.000.000, atteso il tenore del riferimento
ad esse nella scheda testamentaria e di questa nel suo complesso
ed esclusane la natura alimentare,fossero da considerare
assegnazioni collazionabili ex art. 741 C.C..
Detta sentenza il Fallimento impugnava per cassazione con
ricorso affidato a tre motivi.
Resisteva (omissis) con controricorso contestualmente proponendo
ricorso incidentale.
Motivi della decisione
Sostiene, in definitiva il ricorrente Fallimento, per le
ragioni di seguito riportate, che le assegnazioni di danaro
per L. 130.000.00 dal padre (omissis) al figlio (omissis)
dovessero essere considerate come effettuate a titolo di
mantenimento e non di donazione e, quindi, non assoggettabili
a collazione nel rispetto del disposto dell'art. 742 C.C..
Con il primo motivo - denunziando violazione o falsa applicazione
di norme di diritto in relazione all'art. 1362 ss. C.C.
- si duole che la corte territoriale, omettendo d'applicare
il prioritario canone ermeneutico della valutazione testuale
del documento, essenziale in materia testamentaria, a fronte
dell'inequivocabile tenore letterale della scheda in questione,
laddove il de cuius aveva nominato erede universale la figlia
(omissis) dando atto d'aver versato al figlio (omissis)
nel corso degli ultimi anni la complessiva somma di L. 130.000.000
a titolo di mantenimento, abbia erroneamente ravvisato nella
disposizione, quanto al detto versamento, il riconoscimento
d'un'avvenuta donazione e non d'un'elargizione effettuata
in virtù del proprio obbligo se non giuridico per
lo meno morale di mantenere il figlio in difficoltà
economiche.
Con il secondo motivo - denunziando omessa, insufficiente
o contraddittoria motivazione - si duole che la corte territoriale
abbia fornito una spiegazione dell'espresso convincimento
fondata su di un'erronea valutazione dei fatti, avendo ritenuto
incompatibile con il semplice mantenimento e, quindi, riferibile
a ripetute donazioni, l'entità complessiva delle
elargizioni, tale rapporto parametrando ad un periodo di
tempo (anni 1990-1994) inferiore a quello della reale pendenza
del fallimento (anni 1987-1994) e senza considerare che,
ove di donazioni si fosse trattato e non di mantenimento,
le somme relative avrebbero dovuto essere acquisite al fallimento
stesso.
Con il terzo motivo - denunziando violazione o falsa applicazione
dell'art. 147 C.C. - si duole che la corte territoriale
abbia affermato la pretesa natura liberale delle elargizioni
ed esclusol'ipotesi del mantenimento sull'erroneo presupposto
che il beneficiario a tanto non avesse diritto nonostante
fosse ancora convivente con il padre ed, alla data dell'apertura
del fallimento, avesse ancora solo trent'anni.
Nessuna delle riportate censure - che, per loro evidente
connessione e per esigenza di coordinata esposizione, possono
essere congiuntamente trattate - merita accoglimento.
Devesi, infatti, tener presente come, pur essendo indiscutibile
che, in tema d'interpretazione dei contratti, regole prioritarie
per la ricerca della comune intenzione delle parti siano
l'utilizzazione dei criteri ermeneutici soggettivi ( artt.
1362-1365 C.C.), anzi di ricorrere a quelli oggettivi sussidiari
( artt. 1366-1370 C.C.) e di chiusura ( art. 1371 C.C.),
e, nell'ambito dei primi, il desumere, anzi tutto, la volontà
negoziale dal tenore letterale delle espressioni utilizzate
dalle parti per manifestarla C.C.), (art. 1362/1 queste
non possano, tuttavia, salvo ne risulti una manifestazione
inequivoca a tal punto da essere incompatibile con qualsiasi
altro significato, essere prese in considerazione singolarmente
o, comunque, nel ristretto ambito di ciascuna clausola della
quale costituiscono l'esternazione, sebbene debbano essere
valutate e verificate in relazione tanto alle altre clausole
quanto all'intero contesto della dichiarazione negoziale
nella quale sono inserite, onde se ne possa intendere l'esatto
significato ( art. 1363 C.C.).
In vero, la soluzione d'ogni controversia che s'incentri
sull'interpretazione d'un contratto, come l'accertamento
d'ogni situazione soggettiva che s'affermi in ragione della
vigenza d'una regola convenzionale, non possono prescindere
dalla necessaria integrazione del dato testuale con quello
logico-ricostruttivo, questa risultando legittimata, ed
al contempo imposta, dall'espressa disciplina normativa
del coordinato disposto desumibile dalle affermazioni dell'insufficienza
del solo senso letterale delle parole del testo, di cui
al primo comma dell'art. 1362 C.C., e dell'esigenza dell'esame
comparativo delle singole clausole e complessivodell'atto,
di cui all'art. 1363 C.C.; per il che l'interpretazione
non può limitarsi ad una considerazione atomistica
delle singole espressioni o clausole, pur ove le une e le
altre possano apparire rappresentative d'una manifestazione
di volontà di senso compiuto, ma deve procedere secondo
un iter che, partendo dall'accertamento del senso letterale
di ciascuna, questo poi verifichi nel confronto reciproco
ed, in fine, razionalmente armonizzi nella valutazione unitaria
dell'atto.
La predisposizione normativa del rapporto d'interdipendenza
necessaria tra il primo comma dell'art. 1362 CC ed il successivo
art. 1363 CC ai fini dell'accertamento della comune volontà
delle parti quale desumibile dal testo contrattuale è
stata, nel senso sopra indicato, ripetutamente evidenziata
nelle pronunzie di questa Corte (e pluribus Cass. 24.4.90
n. 3439, 11.6.91 n. 6610, 11.1.95 n. 268, 10.6.95 n. 6557,
21.2.95 n. 1877, 23.11.98 n. 11878, 27.6.98 n. 6389,28.6.00
n. 8791) che ha, d'altronde, del pari più volte evidenziato
come il nomen iuris dato al negozio dalle parti e le espressioni
tecniche o pseudo tali utilizzate dalle stesse od anche
dal rogante non vincolino l'interprete che ne ravvisi la
incompatibilità con l'effettiva volontà risultante
dalla disamina dell'atto compiuta mediante gli strumenti
ermeneutici predisposti dal legislatore (Cass. 28.6 00 n.
8791, 21.4.99 n. 3964, 20.6.97 n. 5520, 5.10.92 n. 10898,
11.6.91 n. 6610).
Aggiungasi che, in particolare, l'interpretazione del testamento,
cui in linea di principio sono applicabili le regole d'ermeneutica
dettate dal codice in tema di contratti, con la sola eccezione
di quelle incompatibili con la natura d'atto unilaterale
non recettizio del negozio mortis causa, è caratterizzata,
rispetto a quella contrattuale, da un più penetrante
ricerca, al di là della dichiarazione, della volontà
del testatore, la quale, alla stregua dell'art. 1362 C.C.,
va individuata con riferimento ad elementi intrinseci alla
scheda testamentaria sulla base dell'esame globale della
scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione ed,
in via sussidiaria, id est ove dal testo dell'atto non emergano
con certezza l'effettiva intenzione del de cuius e la portata
della disposizione, con il ricorso ad elementi estrinseci
al testamento, se pur sempre riferibili al testatore, quali
la personalità, la mentalità, la cultura,
la condizione sociale, l'ambiente di vita, i rapporti pregressi
con i soggetti menzionati nella scheda, ecc. (cass. 17.4.01
n. 5604, 19.3.01 n. 3940, 28.12.93 n. 12861, 24.8.90 n.
8668, 15.3.90 n. 2107).
Il giudice del merito, di conseguenza, nell'interpretazione
del testamento, la quale si risolve in un accertamento di
fatto insindacabile in sede di legittimità se immune
da vizi logici egiuridici, può attribuire alle espressioni
adoperate nell'atto un significato diverso da quello tecnico
o letterale, purchè non contrastante o antitetico,
quando, valutando la scheda nel suo complesso e tenendo
conto dei sopra indicati elementi di giudizio propri alla
persona del de cuius, tale diverso significato si presti
ad esprimere in modo più adeguato e coerente la reale
intenzione dello stesso.
Ond'è che non violando, sibbene correttamente applicando,
i richiamati fondamentali canoni dell'ermeneutica contrattuale
nella loro particolare applicazione alla materia testamentaria,
la corte territoriale, nell'esaminare la scheda di cui trattasi,
con motivazione esaustiva e coerente, in quanto perfettamente
aderente alla ratio della disposizione valutata nel suo
complesso ed in rapporto alle circostanze estrinseche costituenti
il suo logico presupposto, è pervenuta alla conclusione
che il de cuius avesse effettivamente inteso istituire la
figlia (omissis) in universum ius e nel contempo voluto
evidenziare la legittimità di tale sua scelta in
quanto insuscettibile di comportare lesione dei diritti
ereditari derivanti ex lege all'altro figlio (omissis) questi
avendo egli in vita " ... nel corso degli ultimi anni
... " beneficiato con ripetute donazioni d'importo
complessivamente superiore alla quota di riserva.
Nè il fatto che il testatore si fosse riferito a
dette elargizioni utilizzando il termine "mantenimento"
può indurre a ritenere ch'egli avesse inteso dare
atto dell'adempimento ad un obbligo legale in tal senso,
dacchè - anche a prescindere dall'irrilevanza, già
sottolineata, di termini tecnico-legali utilizzati da parte
dei dichiaranti, nell'atto oggetto d'interpretazione, in
modo inconsapevole e/o inappropriato - nessun obbligo legale
di mantenimento può ritenersi sussistesse a carico
del testatore.
Come questa Corte ha ripetutamente evidenziato con indirizzo
costante, la normativa in materia d'obbligo d'educazione
e di mantenimento della prole va interpretata nel senso
che l'obbligazione d'assistenza gravante sui genitori si
estenda anche oltre il raggiungimento della maggiore età
da parte dei figli e, tuttavia, perduri soltanto sin quando
costoro non siano obiettivamente in grado di provvedere
direttamente alle proprie esigenze senza che il mancato
raggiungimento dell'indipendenza economica possa esser loro
ascritto a colpa per inerzia nella ricerca d'un lavoro compatibile
o per ingiustificato rifiuto di corrispondenti occasioni
(e pluribus, da ultimo, Cass. 3.4.02 n. 4765, 30.8.99 n.
9109, 8.9.98 n. 8868, 7.5.98 n. 4616, 11.3.98 n. 2670, ma
già 11.12.92 n. 13126, 3.7.91 n. 7295, 26.1.90 n.
475, 28.6.88 n. 4373, 10.4.87 n. 3570, 25.5.81 n. 3416,
11.8.77 n. 3709).
E', infatti, evidente come l'obbligo dei genitori non possa
protrarsi sine die e che, pertanto, esso trovi il suo limite
logico e naturale allorquando i figli si siano già
avviati ad un'effettiva attività lavorativa tale
da consentir loro una concreta prospettiva d'indipendenza
economica, o quando siano stati messi in condizioni di reperire
un lavoro idoneo a procurar loro di che sopperire alle normali
esigenze di vita, od ancora quando abbiano ricevuto la possibilità
di conseguire un titolo sufficiente ad esercitare un'attività
lucrativa pur se non abbiano inteso approfittarne, o comunque
quando abbiano raggiunto un'età tale da far presumere
il raggiungimento della capacità di provvedere a
se sessi, alternativamente sussistendo solo situazioni di
minorazione fisica o psichica altrimenti tutelate dall'ordinamento,
salve le diverse ipotesi, che portano, peraltro, alle medesime
conclusioni, nelle quali si siano inseriti in diversi nuclei
familiari o comunitari, in tal modo interrompendo, comunque,
il legame e la dipendenza morali e materiali con la famiglia
d'origine (confr. nel complesso cass. 28.6.88 n. 4373, Cass.
11.8.77 n. 3709 cit.) Ancora, non può omettersi di
considerare come il riconoscimento d'un diritto al mantenimento
protratto oltre i limiti su indicati in favore dei figli
conviventi e sedicenti non autonomi finirebbe per determinare
una disparità di trattamento ingiustificata ed ingiustificabile
nei confronti dei figli coetanei che, essendosi in precedenza
allontanati dal nucleo familiare od altrimenti resi autosufficienti
pur mantenendo la convivenza, si fossero successivamente
trovati a versare in situazione tale da dover chiedere anch'essi,
in termini legali, il sostegno dei genitori: gli uni, infatti,
si gioverebbero della normativa sul mantenimento, più
favorevole sotto il profilo sia dei presupposti per il conseguimento
dell'assegno, sia dell'ammontare dello stesso, sia della
presunzione del diritto con onere della prova delle circostanze
negative a carico della controparte; gli altri, per contro,
pur maggiormente meritevoli per aver tentato, sebbene senza
fortuna o con esito positivo temporalmente limitato, la
via dell'indipendenza economica, si troverebbero a dover
invocare la normativa sugli alimenti, deteriore sotto il
profilo sia dei presupposti per il conseguimento dell'assegno,
sia dell'entità dello stesso, sia della prova delle
circostanze legittimanti a carico del richiedente secondo
le norme comuni.
Premesse le sopra esposte considerazioni di carattere generale,
pertanto, la valutazione delle circostanze che giustificano
la ricorrenza dell'obbligo dei genitori al mantenimento
dei figli maggiorenni, conviventi o meno ch'essi siano con
i genitori o con l'un d'essi, va effettuata necessariamente
caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente
crescente in rapporto all'età dei beneficiari, in
guisa da escludere che la tutela della prole, sul piano
giuridico, possa essere protratta oltre ragionevoli limiti
di tempo e di misura, al di là dei quali si risolverebbe,
com'è stato giustamente evidenziato in dottrina,
in "forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani
ai danni dei loro genitori sempre più anziani"
(Cfr. Cass. 6.4.93 n. 4108, 11.12.92 n. 13126).
In particolare, come si è sopra già accennato,
una volta che un figlio si sia reso autonomo, non sono più
ipotizzabili nè un suo rientro o una sua permanenza
in famiglia nella posizione dell'incapace d'autonomia, nè
un ripristino in suo favore di quella situazione di particolare
tutela che il legislatore ha inteso predisporre in favore
dei soli figli i quali ancora la detta autonomia non abbiano
conseguita per difetto di requisiti personali o di condizioni
ambientali, e ciò in quanto proprio il fatto d'un'avvenuta
stabile collocazione nel mondo del lavoro sta adimostrare
la ricorrenza degli uni e delle altre e, quindi, l'insussistenza
dei presupposti per un'ulteriore applicabilità della
normativa di particolare favore de qua; nell'ipotesi, quindi,
in cui venga meno, per qualsiasi causa, la già conseguita
indipendenza economica, la tutela apprestata dall'ordinamento
in favore del soggetto rimasto privo di mezzi, sempre che
l'evento negativo non risulti a lui imputabile, è
quella del diritto agli alimenti, ed è un diritto
che l'alimentando, ricorrendone le condizioni, delle quali
è tenuto a fornire la prova, deve azionare jure proprio,
in quanto il far valere pretesa siffatta implica valutazioni
strettamente personali e morali nell'ambito del rapporto
familiare con l'obbligato che nessuna norma, per tal motivo,
rimette ai terzi nè a questi consente di azionarla
in surrogazione (tesi già affermata nella giurisprudenza
di merito e confermata da Cass. 5.8.97 n. 7195).
Nel caso di specie, dunque, escluso, per le sopra esposte
ragioni, che (omissis) per età e per raggiunta autonomia,
potesse aver diritto ad un mantenimento "di ritorno"
in ragione del sopravvenuto fallimento dell'attività
economica intrapresa, e che, pertanto, un corrispondente
onere potesse incombere su (omissis) ed escluso, altresì,
in difetto d'accertamento al riguardo, che il primo avesse
avanzato legittime pretese alimentari soddisfatte dal secondo,
è stato correttamente consequenziale ritenere, da
parte della corte di merito, che le elargizioni effettuate
dal padre in favore del figlio, comunque cospicue in relazione
al patrimonio del disponente anche a prescindere dall'arco
di tempo nel quale erano state effettuate e tenuto conto
dell'evidenziata insussistenza di qualsiasi obbligo legale
al riguardo, avessero quella natura di atti di liberalità
collazionabili ed imputabili alla quota di legittima che
è loro chiaramente attribuita, con la significativa
espressione " ... per evitare disparità di trattamento
tra i miei figli ... ", nella scheda testamentaria
in discussione.
E', poi, appena il caso di rilevare come l'eventuale soggettiva
convinzione del donante di dover adempiere ad un proprio
obbligo morale nel compiere l'atto di liberalità
non rilevi per alcun verso ai fini dell'applicabilità
alla donazione delle norme sulla collazione e come, d'altra
parte, di tale situazione il testatore, giusta quanto in
precedenza evidenziato, fosse pienamente consapevole.
Nè, all'evidenza, minimamente rileva, nel rapporto
tra il fallimento attore e l'erede (omissis) convenuta dedotto
in giudizio, accertare quale dovesse essere la destinazione
delle somme donate dal (omissis) al (omissis) in pendenza
della procedura concorsuale e se quest' ultimo le avesse
o meno legittimamente trattenute.
Non è, in definitiva, riscontrabile nell'impugnata
sentenza alcuno di denunziati profili di violazione di legge,
nè censura alcuna può fondatamente muoversi
alla motivazione, logica e del tutto esauriente.
Nessuno degli esaminati motivi meritando accoglimento,
il ricorso va, dunque, respinto.
Con il ricorso incidentale (omissis) si duole della compensazione
delle spese d'entrambi i gradi disposta dalla corte territoriale.
Tale ricorso non merita accoglimento.
Questa Corte ha ripetutamente evidenziato come, anche al
di fuori dei casi particolari d'impugnazione ex art. 111
Cost. e ferma l'esclusione dalla condanna alle spese della
parte totalmente vittoriosa, il controllo di legittimità
sulle pronunzie del giudici del merito con le quali sia
stata disposta la compensazione delle spese giudiziali,
parziale od anche totale, è comunque limitato all'accertamento
dell'avvenuto richiamo, da parte dei giudici stessi, dei
giusti motivi richiesti dall'art. 92 C.P.C., il provvedimento
di compensazione non necessitando di specifica motivazione
ove a tale lata previsione normativa, ampiamente derogatoria
del principio generale posto dal precedente art. 91 C.P.C.,
venga effettuato esplicito riferimento nell'esercizio del
discrezionale potere dei detti giudici di valutare, in relazione
a tutte le vicende processuali prese in considerazione,
l'opportunità d'una pronunzia in tal senso (e pluribus,
Cass. 1.10.02 n. 14095, 2.8.02 n. 11597, 23.4.01 n. 5976,
12.3.99 n. 2216, 19.5.98 n. 4997, 6.5.98 n. 4575, 21.2.98
n. 1887, 8.10.97 n. 9762, 23.6.97 n. 5607).
Il sindacato di legittimità può estendersi
all'esame della motivazione solo ove i giusti motivi previsti
dall'art. 92 C.P.C., oltre che enunziati, siano stati anche
sviluppati formando oggetto di specifiche argomentazioni,
in tal caso essendovi luogo a verificare così l'idoneità
in astratto dei motivi stessi a giustificare la pronunzia
come la logicità ed adeguatezza delle argomentazioni
svolte al riguardo, giacchè vizi in tal senso sarebbero
indicativi d'un erroneo processo formativo della volontà
decisionale espressa sul punto, mentre resta comunque escluso
l'accertamento in concreto di detti motivi, quaestio facti
la cui valutazione si sottrae al sindacato medesimo (ibidem).
Nel caso di specie, il giudice del merito, avendo fatto
riferimento all'esito complessivo della lite ha operato
una valutazione generica ed onnicomprensiva per la quale
ha ritenuto rispondente ad equità la compensazione
delle spese utilizzando, evidentemente, l'espressione non
in senso tecnico ma omologo alla ricorrenza dei giusti motivi,
secondo una prassi invalsa d'equiparazione, per quanto impropria
tuttavia non altrimenti interpretabile, non essendovi luogo
a pronunzia secondo equità in materia di spese; pertanto,
giusta la richiamata costante interpretazione della giurisprudenza
in materia, la pronunzia non necessitava di motivazione
ulteriore al riguardo.
Le spese del giudizio di legittimità fanno carico
al ricorrente principale, stante la palese prevalente sua
soccombenza, e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
LA CORTE riuniti i ricorsi, li rigetta e condanna il ricorrente
principale alle spese, liquidate in euro 100,00 per esborsi
ed in euro 2.000,00 per onorari oltre ad accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio,
il 21 gennaio 2004.
Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2004.
La
redazione di megghy.com
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