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Trib. Roma, Sez. XIII, 20 maggio 2002 [Giud.
Rossetti]
1. Fatto
Nella tarda serata dell’11 maggio 1997, all’altezza
del km 3+900 della via Maremmana III, si verificava uno
scontro frontale tra due autoveicoli: una Alfa 33, assicurata
per la r.c.a. dalla Siad s.p.a., ed una Fiat Uno, assicurata
per la r.c.a. dalla Assitalia s.p.a..
In conseguenza del violentissimo urto, perdevano la vita
quattro persone.
Gli eredi di una di esse (il conducente dell’Alfa
33) convenivano in giudizio il proprietario e l’assicuratore
del veicolo Fiat Uno, il cui conducente veniva indicato
come unico responsabile del sinistro.
Il proprietario della Fiat Uno si costituiva e, oltre chiedere
il rigetto della domanda attorea, allegava che la responsabilita'
dell’evento andava ascritta al congiunto degli attori,
dei quali chiedeva in via riconvenzionale la condanna al
risarcimento dei danni patiti in conseguenza della morte
della propria madre, che al momento del fatto si trovava
alla guida della Fiat Uno.
Nel giudizio intervenivano anche gli eredi delle altre persone
decedute nel tragico scontro, ciascuno chiedendo la condanna
"di chi di dovere" al risarcimento dei danni rispettivamente
patiti.
Nel giudizio interveniva, altresi', una persona trasportata
sul veicolo Fiat Uno al momento del sinistro, la quale chiedeva
anch’essa nei confronti "di chi di dovere"
il risarcimento del danno biologico, patrimoniale e morale
subito in conseguenza del sinistro.
In esito all’istruzione, dopo avere trattenuto la
causa in decisione, questo Tribunale ritiene che nessuna
delle parti sia riuscita a superare la presunzione posta
a carico di ciascuno dei conducenti dall’art. 2054,
comma 2, c.c. Ciascuno dei conducenti, pertanto si dovrebbe
presumere corresponsabile del sinistro, nella misura del
50%.
Di conseguenza, essendo stata la responsabilita' accertata
non in base alla ricostruzione obiettiva del fatto, ma in
base ad una presunzione, dovrebbero essere rigettate tutte
le domande di risarcimento del danno morale.
L’art. 2059 c.c., infatti, consente il risarcimento
del danno non patrimoniale solo nei casi previsti dalla
legge, tra i quali rientra in primis l’ipotesi di
commissione di un reato, l’unica che nel caso di specie
potrebbe legittimare il risarcimento del danno suddetto.
E’ noto tuttavia che, per "diritto vivente",
si ritiene che il danno non patrimoniale derivante da fatto
illecito astrattamente costituente reato non possa essere
liquidato, quando la responsabilita' dell’autore sia
stata accertata in base ad una presunzione, e non in base
all’oggettiva ricostruzione del fatto.
Questo Tribunale, nondimeno, ritiene che il suddetto art.
2059 c.c. non sia conforme a Costituzione, ed intende pertanto
sollevare incidente di costituzionalita', nei termini che
seguono.
2. Sulla rilevanza della questione
Nel caso di specie, il collegamento giuridico, e non di
mero fatto, tra la regiudicanda e la norma della cui costituzionalita'
si dubita, appare in re ipsa.
Infatti, ove si ritenesse l’art. 2059 c.c. conforme
a Costituzione, tutte le domande di risarcimento del danno
morale, formulate nel presente giudizio, andrebbero rigettate.
Danno che, nel caso di perdita del congiunto per fatto illecito
altrui, costituisce di norma l’aliquota principale
(se non unica) dell’intera aestimatio.
Ove, per contro, si ritenesse l’art. 2059 c.c. in
contrasto con la Costituzione, le suddette domande dovranno
essere accolte.
3. Sulla non manifesta infondatezza
Per ritenere conforme a Costituzione l’art. 2059
c.c. occorrerebbe affermare che la limitata risarcibilita'
del danno morale non violi alcun precetto costituzionale.
Questo assunto, nell’attuale congerie economico-sociale,
non sembra possa essere piu' condiviso, per due motivi:
(a) perche' lede un diritto fondamentale dell’individuo,
come quello alla serenita' morale, e talora produce disparita'
di trattamento inique ed ingiustificate, violando gli artt.
2 e 3 Cost., quest’ultimo sotto il profilo della uguaglianza;
(b) perche' talaltra produce - per effetto degli orientamenti
giurisprudenziali che si sono venuti consolidando negli
ultimi anni, sino a divenire "diritto vivente"
- ingiustificate duplicazioni risarcitorie, violando l’art.
3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza (rispetto
al tertium comparationis rappresentato dall’art. 2043
c.c.).
Questi due profili saranno esaminati partitamente.
3.1. Violazione dell’art. 2 e dell’art. 3 Cost.
sotto il profilo dell’uguaglianza
Per circa 2100 anni non si e' mai dubitato che il pregiudizio
morale causato dal fatto illecito altrui potesse costituire
fonte di una obbligazione civile, della quale l’offeso
era creditore, e l’offensore debitore. Talora l’oggetto
di tale obbligazione era concepito come una sanzione, ma
restava comunque una "sanzione" ben strana, in
quanto versata non allo Stato, ma all’offeso od ai
suoi congiunti. E bastera' richiamare, al riguardo, Ulpiano,
secondo cui utraque actio concurrit et legis Aquiliae et
iniuriarum, sed duales erunt aestimationes, alia damni,
alia contumeliae (Dig. 9, 2, 23, 9); o Paolo, secondo cui
qui servum alienum iniuriose verberat, ex uno facto incidit
et in Aquiliam, et in actionem iniuriarum. Iniuriam enim
ex affectu sit; damnum, ex culpa (Dig. 44, 7, 33, pr.).
Princi'pi non infirmati da Dig. 9, 3, 1, 5 (Ulpiano), secondo
cui in homine libero, nulla corporis aestimatio fieri potest.
Quest’ultimo principio, citato spesso a sproposito,
va infatti rettamente inteso non gia' nel senso che il danno
(morale) da lesione della salute fosse nel diritto romano
irrisarcibile, ma piuttosto nel senso che la persona lesa
dall’altrui illecito, se non avesse subi'to o dimostrato
alcuna perdita patrimoniale, non poteva ricorrere all’actio
utilis legis Aquiliae (nella cui formula era necessario
inserire la aestimatio rei), ma poteva pur sempre contare
sul pagamento della somma richiesta o statuita dal pretore
per l’iniuria.
Tali principi, tenuti fermi da Glossatori e Commentatori,
vennero ripresi e ribaditi dai giusnaturalisti: Grozio,
ad esempio, defini' espressamente il danno come omnem laesionem,
corruptionem, diminutionem aut sublationem eius quod nostrum
est, aut interceptionem eius quod ex jure perfecto debeamus
habere, sive id datum sit a natura sive accidente facto
humano aut lege attributum, sive denique omissionem aut
degenerationem alicuius praestationis quam nobis alter ex
obligatione perfecta exhibere teneatur (De iure belli ac
pacis, II, 17, 1), non limitandone in alcun modo la risarcibilita'
alle sole ipotesi di reato.
Ed anche altri giuristi del Seicento e del Settecento non
dubitarono mai del fatto che tanto i pregiudizi patrimoniali,
quanto quelli morali, potessero e dovessero essere riparati
in denaro, sempre e comunque, quale che ne fosse l’eziogenesi:
cosi' Jean Louis Domat, secondo cui toutes les pertes et
tous les domrnages qui peuvent arriver par le fait de quelque
personne, soit imprudence, le'ge'rete', ignorance de ce
qu'on doit savoir, ou autres fautes semblables, si le'ge'res
qu'elles puissent e'tre, doivent e'tre re'pare'es par celui
dont l'imprudence ou la faute y a donnez lieu (Le lois civiles,
I, 2, XX); o Melchiorre Gioia, secondo cui il soddisfacimento
e' completo (…) quando somministra compenso si' per
le sensazioni dolorose accompagniate [sic] da apparenze
sensibili, che per le sensazioni dolorose scevre di esse.
In somma, poiche' la parola danno non inchiude solamente
le alterazioni nel sistema visibile delle cose, ma anche
le alterazioni nel sistema invisibile de' sentimenti, percio'
se il soddisfacimento debb'essere completo, alle une debbesi
estendere e alle altre (Dell’ingiuria, I, 260).
La complessa e risalente esperienza giuridica, sopra sommariamente
descritta, venne recepita nella prima delle codificazioni
moderne, il Code Napoleon del 1805, il cui articolo 1382
stabili' che tout fait quelconque de l’homme, qui
cause a' autrui un dommage, oblige celui par le faute duquel
il est arrive' a' le re'parer. E quel legislatore, nell’introdurre
tale norma, volle che essa abbracciasse "nella sua
vasta estensione tutte le specie di danni, e li sottopone[sse]
ad una riparazione uniforme, la quale ha per misura il valore
del pregiudizio sofferto. Dall’omicidio fino alla
piu' lieve ferita, dall’incendio di un edifizio fino
alla rottura di uno spregevole mobile, tutto e' sottoposto
alla stessa legge; tutto e' dichiarato capace di un prezzo
che indennizzera' la persona offesa da qualsivoglia danno
sofferto" (cosi' il tribuno Tarrible illustro' all’assemblea,
il 19 piovoso (9 febbraio) 1803, "la legge relativa
alle obbligazioni che si formano senza convenzione").
La dottrina formatasi sul Code napoleon, sin dal XIX sec.,
non dubito' mai della piena e totale risarcibilita' dei
danni patrimoniali e di quelli morali: cosi', ad esempio,
il Laurent, il quale alla domanda se il danno morale da'
luogo a riparazione pecuniaria, rispondeva che "la
soluzione affermativa e' ammessa dalla dottrina e dalla
giurisprudenza. Essa si fonda sulla lettera e sullo spirito
della legge: l’art. 1382 parla di "danno"
in termini assoluti, che non comportano alcuna distinzione;
qualsiasi danno deve percio' essere risarcito, il danno
morale come quello materiale" (Principii di diritto
civile, n. 359).
L’art. 1382 Code Napoleon venne recepito, in forma
pressoche' identica, nell’art. 1151 del Codice civile
italiano del 1865, ed anche la giurisprudenza formatasi
su quest’ultimo corpus normativo, fino alla fine del
XIX sec., rimase costante nell’affermare la risarcibilita'
assoluta del danno morale, quale che fosse la natura dell’atto
illecito che l’aveva arrecato: in tal senso, ex multis,
Cass. Palermo 23 febbraio 1895, in Foro it., 1896, I, 685;
App. Torino 20 gennaio 1900, in Foro it. Rep., 1900, Responsabilita'
civile, 156; Cass. Napoli 18 gennaio 1900, Filangieri, 1900,
769; App. Torino 4 giugno 1880, in Foro it. Rep., 1880,
Danni penali, 23; Cass. Roma 10 marzo 1890, in Foro it.
Rep., 1890, Danno, 22; Trib. Genova 19 febbraio 1900, in
Mon. trib. mil., 1900, 556; App. Palermo 16 marzo 1903,
in Foro it., 1903, I, 944; Trib. Roma 29 maggio 1905, in
Pal. giust., 1905, 325; Cass. Napoli 23 febbraio 1905, in
Riv. giur. sociale, 1905, 214; Trib. Napoli 27 ottobre 1909,
in Dir. e giur., XXV, 292; Cass. Napoli 11 dicembre 1908,
in Giur. it., 1909, I, 2, 624; App. Palermo 22 marzo 1910,
in Foro sic., 1910, 202; App. Trani 25 giugno 1910, in Riv.
dir. civ., 1911, II, 240; App. Venezia 20 aprile 1911, in
Foro ven., 1911, 399; App. Genova 19 aprile 1913, in Riv.
dir. comm., 1913, II, 800; Trib. Messina 9 luglio 1914,
in Trib. giud., 1915, 250; App. Trani 30 gennaio 1915, Filangieri,
1915, 631; App. Trani 24 novembre 1919, in Foro it. Rep.,
1920, Responsabilita' civile, 79; App. Milano 21 gennaio
1921, in Riv. dir. comm., 1921, II, 448; App. Catania 3
aprile 1925, in Foro sic., 1925, 34).
Fu soltanto alla fine dell’ ‘800 che comincio'
ad emergere, prima in dottrina, poi in giurisprudenza, l’idea
che l’art. 1151 c.c. del 1865 consentisse soltanto
il risarcimento del danno patrimoniale, e mai di quello
morale. Tale idea, allora, veniva giustificata con l’assunto
secondo cui i danni morali non sarebbero veri danni: e cio'
in quanto "il diritto ha (…) per sua natura ad
oggetto sempre un oggetto esteriore e sensibile. Non hanno
questa natura, e non si possono neppure propriamente dire
diritti personali, ne' tampoco diritti, od elementi del
patrimonio giuridico personale, gli oggetti dell’offesa
e del danno morale, come p. es. l'onore, la pudicizia. Essi
sono bensi' elementi integranti dell’umana personalita',
e intangibili e inviolabili come questa, ma appunto l’intangibilita'
e inviolabilita' dell’umana persona non e' per se'
medesima un diritto civile o privato, perche' non ha oggetto
esteriore sensibile, non e' pretensione di nessun atto o
fatto esteriore determinato, che un'altra persona determinata
debba porre in essere od evitare. E’ un diritto al
certo (…), ma, perche' non si traduce di sua natura
e necessariamente in esteriori determinate prestazioni,
non e' un vero elemento del patrimonio giuridico-privato
dell'individuo, neppure personale. E’ un diritto la
cui tutela e' prestata propriamente dal diritto pubblico
penale. Or se i danni morali non sono veri danni in senso
civile, cioe' giuridico-privato, egli e' chiaro che gia'
per questo motivo essi non possono dar fondamento e materia
a risarcimento in senso civile, o giuridico-privato, cioe'
pecuniario" (cosi' lo scritto che puo' considerarsi
il "manifesto" della nuova tesi della irrisarcibilita'
del danno morale, in Foro it., 1896, I, 685; il passo sopra
trascritto e' in 701).
Questo nuovo orientamento venne fatto proprio da parte della
giurisprudenza e, dopo aspri contrasti, definitivamente
consacrato dalla Cassazione di Roma a sezioni unite (Cass.
Roma 27 aprile 1912, in Giur. it., 1913, I, 1, 837), e quindi
dalla nuova Cassazione (unica) del Regno (Cass. 20 ottobre
1924, in Giur. it., 1924, I, 1, 952).
La giurisprudenza, nell’aderire alla tesi che negava
la risarcibilita' del danno morale, recepi' puntualmente
i concetti elaborati della dottrina e sopra ricordati, aggiungendo
altri motivi: (a) il codice civile disciplina unicamente
i rapporti giuridico-patrimoniali, e quindi l’art.
1151 c.c., inserito in tale codice, non puo' concernere
i rapporti morali; (b) non esistono criteri certi per la
liquidazione del danno morale; (c) il pagamento di una somma
di denaro all’offeso non puo' mai costituire un "risarcimento"
in senso tecnico, in quanto non e' possibile che l’offeso
"si conforti nella contemplazione dell’oro del
suo offensore".
Questo fu lo "stato delle cose", ovvero l’esperienza
giuridica concreta, rinvenuto dal codificatore del 1942.
Egli quindi, allorche' introdusse l’art. 2059 dell’attuale
codice civile, non fece che recepire il "diritto vivente".
Tale diritto vivente, in base al combinato disposto degli
artt. 1151 c.c. del 1865; e 185 c.p. del 1930, consentiva
la risarcibilita' del danno morale soltanto nel caso in
cui l’illecito integrasse gli estremi di un reato.
Non era, dunque, affatto vero quanto si legge nella relazione
al c.c., e cioe' che la resistenza della giurisprudenza
alla estensione della risarcibilita' dei danni morali "puo'
considerarsi limpida espressione della nostra coscienza
giuridica". E non era vero per tre motivi:
(a) perche' la limitazione suddetta, al momento della promulgazione
del codice, si era affermata in giurisprudenza da poco piu'
di vent’anni, mentre in precedenza la tesi opposta
aveva dominato incontrastata per due millenni;
(b) perche', comunque, si era affermata dopo asperrimi contrasti;
(c) perche' era una tesi sorta nel chiuso dei gabinetti
dove si forma l’opinio doctorum, e non nella palpitante
dialettica delle aule giudiziarie: onde, quand’anche
si volesse ammettere il concetto di "coscienza giuridica",
la tesi della limitata risarcibilita' del danno morale era
stata suggerita dall’alto, e non scaturita dal Volksgeist.
3.2. Da quanto sinora esposto emerge che l’art. 2059
c.c., nel limitare ai casi previsti dalla
legge la risarcibilita' del danno morale, ha recepito una
"idea ordinante", fondata sull’assunto secondo
cui i diritti della personalita' non costituiscono elementi
del patrimonio del titolare, e la loro lesione non da' percio'
luogo a risarcimento.
Ma se davvero questo - come si spera di avere dimostrato
- e' il fondamento logico della norma, ovvero il suo nucleo
primigenio, appare evidente come esso non possa avere alcuna
cittadinanza nell’ordinamento costituzionale.
I diritti della personalita', nessuno escluso, sono riconosciuti
e tutelati dagli artt. 2 e 3 Cost. Insostenibile, quindi,
sarebbe oggi la tesi secondo cui "il diritto ha (…)
per sua natura ad oggetto sempre un oggetto esteriore e
sensibile", e che quindi "non si possono (…)
propriamente dire diritti personali, ne' tampoco diritti,
od elementi del patrimonio giuridico personale, gli oggetti
dell’offesa e del danno morale".
Ed infatti sia la giurisprudenza di legittimita', sia quella
di merito, sia la migliore dottrina, da tempo ritengono
che i diritti della personalita' costituiscano elemento
del patrimonio dell’individuo, e la loro lesione da'
diritto al risarcimento del danno: cosi', ad esempio, si
e' ritenuta risarcibile la lesione dell’integrita'
personale o della reputazione, anche a prescindere dalla
commissione di un fatto reato (ex permultis, per brevita',
bastera' richiamare la motivazione di Cass., sez. I, 7 febbraio
1996, n. 978, in Foro it., 1996, I, 1253).
Orbene, questo tribunale ritiene impossibile continuare
a fingere di ritenere che la sofferenza morale causata dalla
perdita di un prossimo congiunto non sia tutelata da alcun
precetto costituzionale, e quindi - non costituendo un diritto
della personalita' - non possa essere risarcita se non nei
casi di cui all’art. 2059 c.c..
Nel caso sottoposto all’esame di questo tribunale,
due genitori hanno perso un figlio, una figlia ha perso
la propria madre, un fratello ha perso la propria sorella.
Il devastante dolore causato da tali perdite, secondo l’attuale
legislazione, potrebbe essere risarcito solo nei casi in
cui l’atto illecito integri gli estremi di un reato,
e quindi mai quando la responsabilita' dell’autore
sia dichiarata in base ad una presunzione di legge.
Si dovrebbe quindi ammettere, per ritenere conforme a costituzione
l’art. 2059 c.c., che le persone sopra indicate non
abbiano subi'to alcun vulnus nei propri diritti della personalita',
o meglio, nel proprio diritto della personalita', in conseguenza
della perdita del congiunto.
Ma quanto assurda sia questa conclusione emerge gia' soltanto
da una considerazione di fatto, e non giuridica: e cioe'
che, come bene scrisse Miguel de Unamuno, "quel che
distingue l’uomo dagli altri animali e' che veglia
sui suoi morti".
Il senso di inconsolata prostrazione che sorge dalla scomparsa
della persona cara e' talmente fisiologico e connaturale
all’essenza umana, che il mito e l’arte ne forgiarono
esempi indimenticati: cosi' nel mito di Antigone, in quello
di Castore e Polluce, in quello di Orfeo ed Euridice od
in quello di Admeto ed Alcesti; cosi' nel "Lamento"
di Jacopone da Todi; cosi' nella Pieta' di Michelangelo;
cosi' nella Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini.
La conclusione qui contestata (la perdita del congiunto
non vulnera alcun diritto della personalita') non e' meno
assurda sul piano piu' strettamente giuridico.
Secondo l’orientamento prevalente della dottrina,
della giurisprudenza di legittimita' e di quella costituzionale,
l’art. 2 Cost. "sancisce il valore assoluto della
persona umana" (Corte cost. 10 dicembre 1987, n. 479),
ed e' norma a contenuto precettivo e non programmatico.
Di conseguenza, "ogni proiezione della persona nella
realta' sociale, entro i limiti in cui codesto risultato
si ponga come conseguenza della tutela dei diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali
nelle quali si esplica la sua personalita'", e' suscettibile
di assurgere al rango di diritto soggettivo perfetto, con
la conseguente configurabilita' di una tutela risarcitoria
in caso di lesione (cosi' Cass. 10 maggio 2001, n. 6507,
§§ 6.2. e 6.3 dei "Motivi della decisione").
Ebbene, e' indubbio che: (a) la famiglia e' una delle formazioni
sociali nelle quali l’individuo esplica la propria
personalita'; (b) l’affetto e, piu' in generale, i
vincoli di sodalitas che sorgono dall’esistenza del
rapporto parentale, costituiscono "proiezione della
persona nella realta' sociale"; (c) ergo, i suddetti
vincoli costituiscono, ex art. 2 Cost., oggetto di un diritto
soggettivo perfetto, secondo l’iter logico seguito
dalla S.C. nella sentenza da ultimo citata.
La conseguenza e' che l’art. 2059 c.c., impedendo
la risarcibilita' del dolore che scaturisce dalla lesione
dei suddetti vincoli se non nei casi previsti dalla legge,
viola nel contempo sia l’art. 2 Cost., in quanto frustra
uno dei diritti fondamentali dell’individuo; sia l’art.
3 Cost., in quanto ingiustamente differenzia la condizione
di chi perde il congiunto in conseguenza di un illecito
accertato, e chi perde il congiunto in conseguenza di un
illecito presunto ex art. 2054 c.c. (ovvero in base ad altra
presunzione di legge).
4. Dell’impossibilita' di una lettura dell’art.
2059 c.c. costituzionalmente corretta (violazione dell’art.
3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza)
Si potrebbe sostenere, e vi e' stato in giurisprudenza
chi l’ha fatto, che l’art. 2059 c.c. sia suscettibile
di una lettura costituzionalmente orientata, in grado di
salvarlo dal dubbio di illegittimita'.
Secondo tale orientamento, la lesione di un diritto costituzionalmente
protetto, anche in presenza di una norma come l’art.
2059 c.c., sarebbe comunque risarcibile in base al combinato
disposto dell’art. 2043 c.c., e della norma che si
assume di volta in volta violata. Questa ricostruzione e'
stata adottata dallo stesso giudice delle leggi, al fine
di escludere che l’art. 2059 c.c. precludesse la piena
risarcibilita' del danno biologico (Corte cost. 14 luglio
1986, n. 184).
Nondimeno, questo tribunale ritiene che la tesi del "combinato
disposto" (secondo cui i pregiudizi non patrimoniali
sarebbero risarcibili anche se non derivanti da illecito
costituente reato, se lesivi di diritti costituzionalmente
protetti), nel caso di specie, non valga a salvare l’art.
2059 c.c. dai dubbi di legittimita' costituzionale, con
riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della
ragionevolezza, e cio' per tre motivi.
4.1. Il primo motivo e' che la tesi del "combinato
disposto", sopra riassunta, sta e cade con l’assunto
(postulato, piu' che dimostrato) su cui si fonda: e cioe'
che l’art. 2043 c.c. e' una norma in bianco. Tale
norma, si dice, contiene solo la sanzione (il risarcimento
del danno), mentre il precetto andrebbe ricercato in altre
norme dell’ordinamento, e prime fra tutte quelle costituzionali.
Tuttavia l’autorevolezza delle Sezioni Unite, alla
cui opinione questo Tribunale si uniforma convintamente,
ha ormai abbandonato l’idea secondo cui l’art.
2043 c.c. sia una norma in bianco.
La Corte di cassazione ha infatti espressamente definito
il danno risarcibile come "lesione di interesse",
e per l’esattezza come "la lesione dell'interesse
al bene della vita al quale l'interesse [leso], secondo
il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente
si collega" (Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500,
in Giust. civ., 1999, I, 2261).
Per la Corte, dunque, costituisce danno risarcibile non
soltanto la lesione di interessi costituzionalmente protetti,
ma anche quella di qualsiasi interesse "rilevante per
l’ordinamento", cioe' preso in considerazione
da una norma o da un blocco normativo.
Ne consegue che se l’interesse leso e' rilevante per
l’ordinamento, esso sara' senz’altro risarcibile,
senza necessita' di ricorrere all’argomentazione costituzionale;
se, per contro, quell’interesse non e' rilevante per
l’ordinamento, esso sara' irrisarcibile per tale motivo,
e non perche' non contemplato dalla costituzione.
Ebbene, non vi e' dubbio che l’interesse alla propria
serenita' morale sia preso in considerazione dall’ordinamento,
come evidenziato da numerosissimi indici normativi: per
tutti, bastera' ricordare l’art. 2087 c.c., il quale
impone al datore di lavoro le misure necessarie a tutelare
la personalita' morale dei prestatori di lavoro; l’art.
342 bis c.c. (introdotto dalla legge 4 aprile 2001, n. 154),
il quale consente al giudice di adottare "ordini di
protezione", quando la condotta del coniuge e' causa
di grave pregiudizio all'integrita' fisica o morale dell’altro
coniuge; l’art. 1 legge 27 dicembre 1956, n. 1423,
come modificato dalla legge 3 agosto 1988, n. 327, il quale
consente l’adozione di misure di prevenzione nei confronti
di chi mette in pericolo l’integrita' morale dei minorenni;
od ancora i delitti di cui agli artt. 564 e 565 c.p. (raccolti
in un capo rubricato "dei delitti contro la morale
famigliare"); ovvero quelli di cui agli artt. 610-613
c.p. (delitti contro la liberta' morale).
Se dunque l’interesse alla propria integrita' morale
(ricomprendendo in tale concetto anche l’interesse
a non subire turbative dell’animo) e' preso in considerazione
dall’ordinamento, appare irrazionalmente discriminatoria
la limitazione risarcitoria di cui all’art. 2059 c.c.,
prevista soltanto per la lesione del suddetto interesse
morale. Tutti gli altri interessi presi in considerazione
dall’ordinamento, infatti, non sono soggetti a limitazioni
risarcitorie analoghe, e sono sempre risarcibili, quale
che sia la condotta ilelcita per mezzo della quale vengono
violati.
4.2. Il secondo motivo e' che la tesi del "combinato
disposto" prova troppo. Essa, infatti, perviene ad
un risultato ermeneutico non consentito all’interprete,
ma solo al legislatore: e cioe' l’interpretatio abrogans
dell’art. 2059 c.c.
Si consideri, al riguardo, che la nostra costituzione e'
una costituzione "lunga", e che l’art. 2
Cost. e' ritenuto elenco "aperto", suscettibile
di essere integrato di volta in volta con tutti i nuovi
diritti che l’evoluzione sociale dovesse fare emergere.
Ne consegue che, di fatto, qualsiasi pregiudizio alla serenita'
morale dell’individuo sarebbe in astratto risarcibile
ex art. "x" Cost. e 2043 c.c., anche in assenza
di una dimostrata perdita patrimoniale: cosi', ad esempio,
la perduta possibilita' di scrivere lettere d’amore
(ex art. 15 Cost. e 2043 c.c.); di andare a passeggio (ex
art. 16 Cost. e 2043 c.c.); di incontrarsi con gli amici
(ex art. 17 Cost. e 2043 c.c.); di scrivere romanzi d’appendice
(ex art. 21 Cost. e 2043 c.c.).
Il che potrebbe anche essere un risultato auspicabile, ma
che di fatto aggirerebbe, salvis legis verbis, il divieto
di cui all’art. 2059 c.c., rendendo quest’ultima
norma un guscio vuoto, una fattispecie priva di descrizione,
posto che in nulla si distinguerebbe il pregiudizio morale
"puro", da quello derivante da una lesione di
interessi costituzionalmente protetti.
Si consideri, a questo riguardo, che la sofferenza causata
dalla morte di un prossimo congiunto, in rerum natura, e'
una soltanto, ed a meno di coonestare il contrario con circonvoluti
sofismi, non e' possibile distinguere il pregiudizio derivante
dalla turbativa dell’animo, dal pregiudizio derivante
dalla lesione del diritto della personalita'. Una e' la
persona lesa, una e' la fonte della sofferenza, uno e' il
pregiudizio da questa patito.
Ne consegue che, se si volesse sottrarre l’art. 2059
c.c. ai dubbi di legittimita' costituzionale, sostenendo
che la turbativa dell’animo causata dall’altrui
illecito costituisce lesione di un diritto costituzionalmente
protetto, la quale fa sorgere ipso iure il diritto al risarcimento
del relativo pregiudizio (in aggiunta al danno morale propriamente
detto), si perverrebbe al risultato di rendere inoperante
lo sbarramento di cui all’art. 2059 c.c., in quanto
di qualsiasi pregiudizio morale potrebbe facilmente predicarsi
la sussumibilita' in questo o quel diritto costituzionalmente
protetto. Il che vuol dire abrogare, di fatto, l’art.
2059 c.c.
Cosi' ad esempio, nel caso di specie, se si ritenesse che
la perdita del prossimo congiunto costituisca lesione di
un diritto costituzionalmente protetto, di fatto si risarcirebbe
la sofferenza provata dal superstite, anche in assenza dell’accertamento
di un reato. Si perverrebbe, cioe', proprio all’esito
che l’art. 2059 c.c. voleva scongiurare.
Tuttavia l’obbligo, per il giudice di merito, di preferire
sempre l’interpretazione conforme a costituzione,
sussiste soltanto la' dove la scelta fosse tra due interpretazioni
che consentissero parimenti alla norma di produrre effetti.
Ma, per un evidente principio di corretta ermeneutica, tra
una interpretatio abrogans conforme a costituzione, ed una
interpretatio utilis difforme da costituzione, l’interprete
deve scegliere necessariamente la seconda, altrimenti finirebbe
per sostituirsi inammissibilmente non solo al legislatore,
ma anche alla Corte costituzionale. Se, infatti, fosse possibile
al giudice di merito addivenire ad interpretazioni sostanzialmente
disapplicative della norma, come quella qui contestata,
questi finirebbe per esercitare in proprio il controllo
di costituzionalita', il che gli e' vietato dall’art.
134 Cost.
E poiche', come si e' visto, la pretesa interpretazione
adeguatrice dell’art. 2059 c.c. conduce alla sostanziale
disapplicazione di esso, tale interpretazione non puo' essere
seguita.
4.3. Il terzo motivo, strettamente connesso al precedente,
e' che se si ritenesse il pregiudizio morale risarcibile
in base al combinato disposto degli artt. 2 Cost. (o altra
norma di rango costituzionale) e 2043 c.c., nei casi in
cui il fatto illecito integra comunque gli estremi di un
reato, si risarcirebbe due volte il medesimo danno.
Cosi', nel caso di morte del congiunto causata dall’altrui
illecito, ove si ritenesse che la rottura del vincolo familiare
costituisca lesione di un diritto costituzionalmente protetto,
la vittima avrebbe certamente diritto al risarcimento del
danno ingiusto, ex art. 2 Cost. e 2043 c.c.. E tuttavia,
la' dove l’illecito integrasse pacificamente gli estremi
di un reato, la medesima vittima potrebbe legittimamente
pretendere anche il risarcimento del danno morale. In questo
modo un pregiudizio assolutamente identico (la sofferenza
per la morte del congiunto) verrebbe risarcito due volte:
sia a titolo di lesione di un diritto costituzionalmente
protetto; sia a titolo di danno morale.
Il che costituisce un esito interpretativo non solo in contrasto
col generale canone di ragionevolezza di cui all’art.
3 Cost., ma anche col principio di uguaglianza di cui alla
medesima norma, in quanto privilegerebbe ingiustificatamente
la vittima di un illecito accertato, rispetto alla vittima
di un illecito presunto (ad esempio, ex art. 2054 c.c.),
quali sono gli attori e gli intervenuti nel giudizio a quo.
4.4. Alla soluzione qui prospettata non sembra potersi obiettare
che anche nel caso di lesione della salute il medesimo fatto
lesivo fa sorgere il diritto al risarcimento sia del danno
biologico, sia del danno morale, e cio' per due motivi.
In primo luogo, perche' il danno biologico, per effetto
della promulgazione della legge 57/2001, puo' ben farsi
rientrare nei "casi previsti dalla legge" di cui
all’art. 2059 c.c. Sicche' il cumulo, in questa ipotesi,
sarebbe normativamente previsto.
In secondo luogo, quel che piu' rileva, perche' nel caso
di danno biologico il pregiudizio incide su un elemento
(la complessiva validita' dell’individuo) concettualmente
distinto dalla "serenita' morale" del leso. Sicche',
sia pure a livello soltanto logico, e' possibile concepire
e valutare separatamente la ridotta validita' biopsichica
della vittima, dalla sua sofferenza morale.
Per contro, nel caso di perdita di un prossimo congiunto
(come pure nel caso di qualsiasi pregiudizio morale causato
dall’altrui illecito), il pregiudizio morale del superstite
non potrebbe distinguersi in nulla dal pregiudizio asseritamente
derivante dalla lesione del diritto costituzionalmente protetto
all’integrita' della famiglia. Pretendere di distinguere
l’uno dall’altro tipo di danno sarebbe operazione
puramente definitoria, che sfocerebbe in una ingiustificata
duplicazione dei risarcimenti nei casi di illeciti costituenti
reato.
E neppure varrebbe obiettare che, nei casi in questione,
l’art. 2059 c.c. conserverebbe una propria autonomia,
in quanto il risarcimento del danno morale avrebbe la funzione
di sanzionare il responsabile.
Che il danno morale possa avere una funzione anche sanzionatoria,
non vi e' dubbio; che tale funzione possa essere l’unica,
deve radicalmente escludersi: la S.C., infatti, e' assolutamente
costante nel ritenere che il risarcimento del danno morale
deve essere liquidato non tenendo conto della capacita'
patrimoniale dell’offensore: "e' (…) irrilevante
- osserva la S.C. -, in relazione alla funzione consolatoria-satisfattiva
della corresponsione di una somma di denaro a titolo di
risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a lesioni
personali (…), la considerazione dello stato di "bisogno
del danneggiato" e, ancor di piu', della "capacita'
patrimoniale dell'obbligato", che potrebbe logicamente
correlarsi solo ad una finalita' prevalentemente "punitiva"
del risarcimento in relazione al particolare disvalore sociale
della condotta cui l'evento si ricollega, da escludersi
in caso di lesioni personali colpose (Cass. 14 ottobre 1997,
n. 10024, in Arch. circolaz., 1998, 149; Cass. 14 febbraio
2000, n. 1633). Con analoga ratio decidendi, piu' recentemente,
anche Cass. 20 dicembre 2001, n. 16073, in Guida al dir.,
2002, fasc. 2, 44, ha escluso la risarcibilita' del danno
morale da morte del congiunto (nella specie, del coniuge
separato), ove l’attore non dimostri di avere provato
una effettiva e reale sofferenza. Affermazione, quest’ultima,
che si spiega soltanto attribuendo al ristoro del danno
morale natura di vero e proprio risarcimento, poiche' la
sanzione per un atto illecito oggettivamente commesso non
potrebbe essere esclusa in base alla mera circostanza che
la vittima non ha provato dolore.
Se dunque il risarcimento del danno morale non e' una sanzione,
resta confermato quanto gia' esposto in precedenza, e cioe'
che il risarcimento di esso non puo' affiancarsi, a pena
di inammissibili duplicazioni risarcitorie, alla liquidazione
di pretesi danni da lesione di interessi costituzionalmente
protetti, quando questi ultimi in nulla si distinguano dai
pregiudizi puramente morali, come appunto nel caso di danno
morale da perdita del prossimo congiunto.
5. In via subordinata
Qualora la Corte costituzionale ritenesse l’art.
2059 c.c. non in contrasto con i parametri costituzionali
indicati, questo Tribunale ritiene di dovere sollevare una
questione subordinata di legittimita' costituzionale della
norma ora citata, per contrasto con l’art. 3 Cost.,
la' dove non consente la liquidazione del danno morale nei
casi in cui la responsabilita' dell’offensore sia
stata affermata in base ad una presunzione di legge (ad
es., ex art. 2054 c.c.).
Si e' gia' detto che tale interpretazione della norma e'
talmente risalente, consolidata e monolitica da costituire
diritto vivente (ex permultis, Cass. 2 ottobre 1998, n.
9794, in Foro it. Rep., Responsabilita' civile, 315; Cass.
25 settembre 1998, n. 9598, in Foro it. Rep., 1998, Danni
civili, 137; Cass. 21 aprile 1998, n. 4030, in Arch. circolaz.,
1998, 774; Cass. 11 marzo 1998, n. 2674, in Foro it. Rep.,
1998, Danni civili, 139; Cass. 18 luglio 1997, n. 6632,
in Foro it. Rep., 1997, Danni civili, 154; Cass. 27 giugno
1997, n. 5781, in Foro it. Rep., 1997, Danni civili, 153;
Cass. 28 agosto 1995, n. 9045, in Foro it. Rep., 1995, Danni
civili, 159; Cass. 14 marzo 1995, n. 2932, in Foro it. Rep.,
1995, Danni civili, 160; Cass. 3 dicembre 1993, n. 11999,
in Arch. circolaz., 1994, 226, per citare solo alcune tra
le piu' recenti decisioni).
L’orientamento in esame, tuttavia, sorse in un’epoca
storica in cui, vigendo l’art. 3 c.p.p. del 1930,
e la conseguente necessita' di sospendere obbligatoriamente
il processo civile nell’attesa della definizione di
quello penale, l’accertamento dell’illecito
in sede civile era necessariamente subordinato all’accertamento
del fatto reato in sede penale.
In quel sistema, pertanto, giustamente si escludeva la risarcibilita'
del danno morale nei casi di responsabilita' presunta: l’inesistenza
del reato, stabilita nell’esercizio della giurisdizione
penale, per la preminenza logica e giuridica di quest’ultima
non poteva essere contraddetta dagli esiti del processo
civile.
Il rapporto tra il processo civile e quello penale, tuttavia,
e' radicalmente mutato per effetto dell’introduzione
del nuovo art. 75 c.p.p., il quale consente che l’azione
di risarcimento possa avere un iter del tutto scisso da
quello del procedimento penale, ed anzi tollera addirittura
esiti contrastanti tra il giudizio penale e quello civile.
Cio' vuol dire che la vittima, qualora decida di azionare
la propria pretesa risarcitoria dinanzi al giudice civile,
deve poter contare sull’intero strumentario probatorio
messole a disposizione del legislatore; e quindi anche sulle
presunzioni semplici previste dalla legge.
E tuttavia l’orientamento della cui legittimita' si
dubita impedisce alla parte, che abbia deciso di promuovere
l’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile, di
avvalersi di uno dei mezzi di prova piu' tipici e risalenti
del processo civile, cioe' la presunzione.
In tal modo, il suddetto orientamento si pone in contrasto
con l’art. 3 Cost., in quanto - in modo irrazionale
rispetto al dettato dell’art. 75 c.p.p., considerato
quale tertium comparationis -, ad onta della conclamata
parita' delle giurisdizioni, di fatto disincentiva il danneggiato
che promuova l’azione risarcitoria dinanzi al giudice
civile, precludendogli il ricorso ai mezzi di prova previsti
dall’ordinamento per il giudizio civile di risarcimento
del danno.
P.Q.M.
il Tribunale, visti gli artt. 134 Cost. e 23 legge 87/1953,
ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza,
solleva d’ufficio la questione di legittimita' costituzionale
dell’art. 2059 c.c., per contrasto con gli artt. 2
e 3 cost., nei sensi di cui in motivazione;
- in via subordinata, solleva d’ufficio la questione
di legittimita' costituzionale dell’art. 2059 c.c.,
per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui
non consente la risarcibilita' del danno morale, la' dove
la responsabilita' dell’autore dell’illecito
sia stata ritenuta in base ad una presunzione semplice;
- sospende il presente giudizio;
- manda alla Cancelleria di provvedere alla immediata trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale.
- manda alla Cancelleria di notificare la presente ordinanza
alle parti costituite ed al Presidente del Consiglio dei
Ministri;
- manda alla Cancelleria di comunicare la presente ordinanza
ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
La redazione di megghy.com |