Corte di Cassazione, Sez. Unite, 1 luglio
2002 [Pres. Delli Priscoli]
Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 2 aprile 1983, A. S., in proprio
e quale genitore esercente la potesta' sul figlio minore
G., conveniva in giudizio dinanzi al tribunale di Napoli
la Clinica S. spa, esponendo che in occasione del parto
della moglie, M. G., per imperizia del personale curante,
il suddetto figlio aveva subito lesioni, che gli avevano
causato una totale invalidita'. Chiedeva pertanto il risarcimento
dei danni patiti dal minore e il rimborso delle spese affrontate
per assisterlo, oltre interessi e rivalutazione. La convenuta
si costituiva, contestando in toto la domanda. Con successivo
atto di citazione notificato il 7 marzo 1986, lo A. S. proponeva
analoga domanda nei confronti del ginecologo F. G., che,
costituitosi in giudizio, ne contestava il fondamento. Riuniti
i processi, dopo la rimessione della causa al collegio,
con comparsa integrativa si costituiva anche M. G., in proprio
e nella qualita' di erede del figlio G. deceduto in data
11 novembre 1992. Il processo era successivamente trasmesso
al tribunale di Torre Annunziata, di nuova istituzione ai
sensi della legge 126/92, che, con sentenza del 13 giugno
1996, dichiarava inammissibile la domanda proposta nei confronti
del F. G. ; condannava la Clinica S. spa al pagamento, in
favore di entrambi gli attori, della somma di lire cinquecento
milioni e nei confronti del solo A. S. della somma di lire
250 milioni, con gli interessi legali della decisione.
Proponevano gravame la Clinica S. ed in via incidentale
i coniugi S. - G. mentre il F. G: si limitava a chiedere
la conferma della pronuncia di inammissibilita' della domanda
proposta nei suoi confronti e la Corte d’appello di
Napoli, con sentenza del 3 settembre 1997, in parziale riforma
di quella impugnata sul punto della liquidazione del danno,
condannava la Clinica S. spa al pagamento, in favore dei
suddetti coniugi, della somma complessiva di lire 700.000.000
(e di ulteriori 50.000.000 milioni al solo A. S. per le
sostenute spese di cura ed assistenza), quali eredi del
figlio G., nato il 27 gennaio 1981 e deceduto in corso di
causa in data 11 novembre 1992 (dopo la precisazione delle
conclusioni in primo grado), a titolo di risarcimento del
danno biologico e morale subito dal minore per l’invalidita'
totale derivatagli dall’anossia di cui aveva sofferto
al momento della nascita e dalla successiva sindrome asfittica,
non adeguatamente trattata, che aveva provocato ipossia
cerebrale e conseguente microencefalite.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso
i coniugi S. - G., affidandolo a due motivi. Ha resistito
la Clinica S. spa con controrircorso, proponendo a sua volta
ricorso incidentale sulla base di cinque motivi, al quale
i ricorrenti principali hanno replicato con controricorso
e memoria, mentre il F. G., regolarmente intimato, non si
e' costituito.
All’udienza del 27 marzo 2000 fissata per la discussione,
la terza sezione civile con ordinanza in pari data, su conforme
parere del pg e con l’adesione delle parti, rilevato
che il secondo motivo del ricorso principale investiva una
questione (la risarcibilita' del danno morale patito dagli
stretti congiunti della persona offesa in caso di gravi
lesioni derivanti da fatto costituente reato, risolta in
senso negativo dal giudice di appello) sulla quale si rinveniva
un contrasto nella giurisprudenza di questa corte e che
la questione appariva comunque di particolare importanza,
rimetteva gli atti al primo presidente per l’eventuale
assegnazione alle sezioni unite, «non sembrando essere
a tanto ostative le questioni preliminari poste dal ricorso
incidentale». Ambedue le parti hanno depositato ulteriori
memorie per la presente udienza.
Motivi della decisione
Vanno preliminarmente riuniti i due ricorsi, relativi alla
stessa sentenza, ai sensi dell’articolo 335 Cpc.
In secondo luogo, occorre accennare succintamente alle censure
hinc et inde proposte per individuare quali di esse, oltre
a quella specificamente devoluta alle sezioni unite, debbano
essere eventualmente esaminate per il loro carattere pregiudiziale
e/o preliminare.
Orbene, i ricorrenti principali, con il primo complesso
motivo, denunciano l’illegittimita' dell’esclusione
del danno patrimoniale in capo a G. S., lamentando che erroneamente
la corte territoriale ha ritenuto che nel caso in cui il
danneggiato muoia per causa sopravenuta, indipendente dal
fatto lesivo, di cui il convenuto e' chiamato a rispondere,
la liquidazione dei danni futuri vada fatta con riferimento
non alla durata probabile, ma alla durata effettiva della
vita.
Con il secondo, si dolgono che sia stato escluso il risarcimento
del danno morale da loro stessi patito in relazione alle
gravissime menomazioni del figlio, per essere questi sopravvissuto
al fatto lesivo.
A sua volta la Clinica S., ricorrente incidentale, con il
primo di due mezzi denuncia la nullita' del processo per
originario difetto dello ius postulandi del procuratore
di controparte e, comunque, lamenta la mancata interruzione
del processo quanto meno a seguito della sopravvenuta perdita
dello ius postulandi. Con il terzo e quarto motivo censura
la declaratoria della sua responsabilita', affermata sulla
base di una CTU illogica e contraddittoria, senza l’ammissione
dei mezzi di prova idonei a confutarla e senza considerare
che la casa di cura era rimasta estranea al rapporto di
prestazione professionale concluso tra la partoriente ed
il suo ginecologo di fiducia, dottor F. G..
Infine, con il quinto motivo, contesta sotto diversi profili
l’ammontare del danno liquidato e degli accessori
(rivalutazione ed interessi). Chiarito quanto innanzi, e'
di tutta evidenza che queste sezioni unite devono scrutinare
pregiudizialmente i primi quattro motivi del ricorso incidentale
perche', investendo la regolare instaurazione del rapporto
processuale nonche' la statuizione di responsabilita' della
Clinica S., ove fondati, precluderebbero l’esame del
secondo motivo del ricorso principale, ad esse specificamente
devoluto (articolo 142 disp. att. Cpc).
Ricorso incidentale. Con il primo motivo la Clinica S. denuncia
la nullita' del procedimento (articolo 360 numero 4 Cpc),
in quanto il giudizio era stato introdotto il 2 aprile 1983,
successivamente all’istituzione della Corte d’appello
di Salerno con sede autonoma, con citazione redatta da avvocati
esercenti a Cava dei Tirreni e a Milano. Vi era dunque nullita',
rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo,
degli atti sottoscritti dal procuratore non abilitato al
patrocinio nel distretto dell’autorita' giudiziaria
adita (Corte d’appello di Napoli), essendo irrilevante
che la Corte d’appello di Salerno fosse effettivamente
entrata in funzione solo il 4 agosto 1983, poiche' comunque
i procuratori «potevano esercitare la propria attivita'
solo nel territorio di Salerno, Sala Consilina e Vallo della
Lucania».
Con il secondo motivo la Clinica Stabia denuncia la falsa
applicazione dell’articolo 301 Cpc, lamentando che,
ove anche si dovesse ritenere che alla data di notifica
della citazione il procuratore fosse ancora dotato dello
ius postulandi, lo aveva comunque perso in corso di causa.
La ricorrente specifica che «dal 4 agosto 1983, l’iscrizione
del procuratore costituito in un distretto divenuto diverso
da quello della corte d’appello nel quale e' stata
compresa la circoscrizione del tribunale competente ha,
quanto meno, fatti si' che il giudizio si interrompesse».
I due motivi, che per la stretta connessione logico-giuridica
delle rispettive censure possono esaminarsi congiuntamente,
non sono fondati. Al riguardo, va in primo luogo condiviso
quanto, in conformita' al giudice di primo grado, ha ritenuto
il giudice del gravame, che, cioe', nel caso d’istituzione
di una nuova corte d’appello, «le preclusioni
e le incapacita' riguardanti l’attivita' forense»
ad essa collegate, non operano fino a quando il nuovo ufficio
giudiziario non entra in funzione. Rettamente, pertanto,
il suddetto giudice ha affermato che il presente giudizio,
promosso in data 2 aprile 1983, era stato ritualmente instaurato
«atteso che la Corte d’appello di Salerno, all’atto
della notificazione del relativo atto di citazione, pur
se gia' istituita, non era ancora entrata in funzione»
(il decreto ministeriale 193/83 fissava tale data al 4 agosto
1983).
Orbene, accertato quanto sopra, e' sufficiente richiamare
e ribadire il principio, gia' affermato da questa corte,
secondo il quale nel caso in cui vi sia stata rituale costituzione
in giudizio a mezzo di un procuratore legittimato, la validita'
della costituzione del rapporto processuale non viene meno
per il fatto che, in conseguenza della costituzione di nuova
corte di appello nella quale risulti compresa la circoscrizione
del tribunale presso cui il giudizio e' prendente, il suindicato
procuratore si trovi ad essere iscritto in un diverso distretto,
non derivando da cio' il venir meno dello ius postulandi
del procuratore ritualmente costituitosi e restando quindi
esclusa la configurabilita' di un’ipotesi d’interruzione
del processo (Cassazione 8467/94). Ancorche', infatti, l’esercizio
illegale della professione extra territorio comporti la
giuridica inesistenza dell’atto posto in essere dal
procuratore, a nulla rilevando che questi sia iscritto negli
albi degli avvocati, con conseguente nullita' di tutti gli
atti successivi alla costituzione in quanto il procuratore,
privo dello ius postulandi, non ha la capacita' di stare
in giudizio per la parte che rappresenta (nullita' radicale,
rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del
giudizio perche' attiene alla valida costituzione del contraddittorio);
quando invece vi sia stata la rituale costituzione in giudizio
a mezzo di un procuratore legittimato, la validita' della
costituzione del rapporto processuale non viene meno per
il fatto che, in conseguenza della costituzione di una nuova
corte di appello nella quale risulta compresa la circoscrizione
del tribunale presso cui il giudizio e' pendente, il procuratore
si sia trovato ad essere iscritto in diverso distretto (cfr.
Cassazione 383/90).
L’ipotesi e' in un certo senso analoga a quella della
cancellazione volontaria dell’albo professionale,
anche se seguita da iscrizione in albo tenuto da un diverso
consiglio dell’ordine, atteso che la legge istitutiva
della nuova corte di appello non ha direttamente determinato
la perdita dello ius postulandi, riconducibile pur sempre
alla permanenza dell’iscrizione originaria. Secondo
la giurisprudenza di questa Corte, infatti, la cancellazione
dall’albo non determina l’interruzione del processo,
perche' questo evento non e' compreso tra quelli che, tassativamente,
producono tale effetto a norma dell’articolo 301 Cpc
(morte, sospensione o radiazione), essendo piuttosto assimilabile,
quanto al regime giuridico, alla rinunzia o alla revoca
del mandato professionale (Cassazione 8783/93 e 7282/92
ex plurimis). D’altra parte, questa conclusione discende
anche dall’operativita' del principio di ordine generale,
del quale e' espressione l’articolo 5 Cpc (principio
che risulta rafforzato ed esteso nel teso introdotto dalla
legge 353/90) di irrilevanza dei successivi mutamenti della
legge o dello stato di fatto rispetto al momento della proposizione
della domanda. E' sufficiente aggiungere che sul punto della
eventuale nullita' degli atti successivamente compiuti dal
suddetto procuratore, non e' stata proposta specifica censura.
I primi due motivi vanno, pertanto, rigettati.
Con il terzo mezzo la Clinica S., denunciando la violazione
e la falsa applicazione dell’articolo 2697 Cc e l’omessa
motivazione su un punto decisivo della controversia, in
relazione all’articolo 360 numeri 3 e 5 Cpc, si duole
che la corte territoriale abbia riconosciuto la sua responsabilita'
in ordine alla produzione dell’evento dannoso, sulla
base di un’accettazione acritica delle conclusioni
della CTU, senza disporre un doveroso supplemento di indagine
e/o ammettere le richieste istruttorie di interrogatorio
formale e di prova testimoniale, richieste al fine di contrastare
tali conclusioni.
Con il quarto motivo, poi, denunciando la violazione e la
falsa applicazione degli articoli 2697, 2236 e 1228 Cc,
112 Cpc nonche' l’insufficienza della motivazione
sullo stesso punto decisivo della controversia in relazione
all’articolo 360 numeri 3 e 5 Cpc, contesta la declaratoria
di responsabilita' pronunciata a suo carico sotto un diverso
profilo, quello cioe' dell’inesistenza di un vincolo
di subordinazione tra il ginecologo F. G. ed essa Clinica
S.. Precisa al riguardo la ricorrente che il medico era
stato personalmente scelto dalla paziente e con essa aveva
direttamente concluso il contratto di prestazione d’opera
professionale; cosicche' l’esecuzione dell’intervento
di cui e' causa non aveva costituito oggetto di una convenzione
tra la paziente e la clinica, limitandosi la relazione contrattuale
tra queste due parti a prevedere prestazioni di tipo alberghiero
ed assistenziale a favore della paziente e la messa a disposizione
della struttura e della organizzazione necessaria al F.
G. per l’assistenza al parto, che quest’ultimo
si era obbligato a compiere.
Anche questi due motivi, che lo stretto collegamento delle
rispettive censure vanno esaminate congiuntamente, non sono
fondati. Essi tuttavia prospettano profili di grande delicatezza
concernenti il titolo della responsabilita' della casa di
cura privata per i danni patiti, a seguito di interventi
medico-chirurgici, dai pazienti ricoverati. Al riguardo,
la Clinica S. ha menzionato, in assenza di un indirizzo
consolidato, una recente pronuncia, secondo la quale, in
materia di colpa medica, la casa di cura privata puo' essere
chiamata a rispondere del danno alla persona causato dalla
colpa professionale del medico che ha eseguito l’intervento
in due casi: a) a titolo di responsabilita' indiretta ex
articolo 2049 Cc, ove sussista un vincolo di subordinazione
tra la casa di cura ed il medico operante; b) a titolo di
responsabilita' diretta ex articolo 1218 Cc, qualora la
casa di cura abbia assunto direttamente nei confronti del
danneggiato, con patto contrattuale, l’esecuzione
dell’intervento (Cassazione 2678/98).
Ma ritornando ancor piu' recentemente sull’argomento,
questa Corte ha affermato, con stringata ma incisiva motivazione
che vale la pena riportare integralmente, che «la
responsabilita' della casa di cura, generalmente, e' responsabile
per inadempimento dell’obbligazione che la stessa
casa di cura assume, direttamente con i pazienti, di prestare
la propria organizzazione aziendale per l’esecuzione
dell’intervento richiesto. Infatti, all’adempimento
dell’obbligazione ora indicata e' collegata la rimunerazione
della prestazione promessa, in essa incluso anche il costo
inteso come rischio dell’esercizio dell’attivita'
di impresa della casa di cura. Naturalmente nel rischio
prima indicato e' compreso anche quello della distribuzione
delle competenze tra i vari operatori, delle quali il titolare
dell’impresa risponde ai sensi dell’articolo
1228 Cc».
Rispetto a questo inquadramento, non sono rilevanti i seguenti
fatti:
- che i medici che eseguono l’intervento chirurgico
siano o meno inquadrati nell’organizzazione aziendale
della casa di cura: infatti, la prestazione di questi ultimi
e' indispensabile alla casa di cura per adempiere l’obbligazione
assunta con i danneggiati;
- che il comportamento dei medici sia colposo: infatti,
la norma prima citata svolge esattamente la funzione di
attribuire il rischio dell’attivita' degli ausiliari
della prestazione a chi si appropria, anche in misura non
esclusiva, dei vantaggi della prestazione (Cassazione 103/99).
Ora, dalle esposte pronunce, emerge la difficolta' di inquadrare
dommaticamente tali ipotesi di responsabilita', frequenti
nella pratica e spesso diverse l’una dall’altra;
difficolta' che emergono dalla sentenza impugnata, peraltro
emessa in epoca precedente, che nell’individuazione
del titolo della responsabilita' della casa di cura ricorre
sia all’articolo 2236 Cc che all’articolo 1228
Cc (come sottolineato anche dal pg).
Ma siffatte incertezze non valgono ad infirmare sostanzialmente
la contestata motivazione, ove si ricordi che essa si articola
attraverso i seguenti passaggi:
- che «dopo la nascita non vi e' dubbio che il bambino
fu collocato in incubatrice e sottoposto ad ossigeno-terapia,
poiche' aveva subito una sindrome asfittica, mentre avrebbe
avuto bisogno di una terapia d’urgenza in un centro
clinico attrezzato»;
- che «siffatta omissione va considerata, alla stesura
della CTU, fattore eziologicamente sufficiente a determinare,
di per se' solo, una encefalopatia con danni anatomici irreversibili»;
- che l’anamnesi della puerpera era stata totalmente
negativa;
- che il parto, alla stregua di molteplici elementi, era
stato provocato;
- che «la responsabilita' dell’evento, pertanto,
va ascritta al ginecologo ed al personale della Clinica
S. per gli errori commessi durante il parto, per l’omessa
insufficiente assistenza successiva e per l’incapacita'
decisionale determinante l’omesso, immediato trasferimento
del neonato»;
- che «tra la predetta clinica e i coniugi S. - G.
e' stato stipulato un contratto di prestazione d’opera
professionale»;
- che pur non essendo stata acclarata l’esistenza
di un rapporto di subordinazione tra il ginecologo e la
clinica, tuttavia quest’ultima avrebbe dovuto rispondere
dell’operato del professionista, stante l’inserimento
di quest’ultimo nell’organizzazione aziendale
della prima;
- che, soprattutto, come ritenuto anche dal tribunale, «ove
si dovesse escludere la responsabilita' del F. G. , per
essergli stato l’incarico professionale conferito
dagli attori, la Clinica S. risponderebbe ugualmente per
l’insufficienza degli impianti e delle attrezzature
e per l’incapacita' del personale ausiliario ad affrontare
la situazione di emergenza»;
- che, infatti «l’ente sanitario non era fornito
delle attrezzature idonee a contrastare validamente siffatta
sindrome e, inoltre, il personale di cui si avvaleva non
fu in grado di decidere che il minore fosse al piu' presto
ricoverato in un centro ospedaliero attrezzato, dove ricevere
le terapie urgenti del caso, lasciando invece trascorrere
15 fatali ore, che determinarono l’encefaolopatia
con danni anatomici irreversibili (vedi ctu)».
Trattasi di motivazione che non configge con i principi
affermati nelle due sentenze sopraccitate e che, soprattutto,
individua una responsabilita' autonoma e diretta della casa
di cura (donde l’irrilevanza dell’eventuale
responsabilita' concorrente del ginecologo F. G., ancora
sub iudice in altro processo e sulla cui asserita mancanza
ha molto insistito il difensore della Clinica S. nella memoria
conclusiva e nella discussione orale).
Responsabilita' affermata sulla base di una CTU «fondata
su accertamenti scientifici del tutto corretti e su argomentazioni
logiche e coerenti» e che presuppone una adeguata
configurazione del complesso ed atipico rapporto che si
instaura comunque tra la casa di cura ed il paziente, anche
nell’ipotesi in cui quest’ultimo scelga al di
fuori il medico curante, dal momento che la clinica non
si limita (come sbrigativamente affermato dalla controricorrente)
ad impegnarsi alla fornitura di mere prestazioni di natura
alberghiera (somministrazione di vitto e alloggio), ma si
obbliga alla messa a disposizione del personale medico ausiliario,
di quello paramedico ed all’apprestamento dei medicinali
e di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di
eventuali complicanze.
Detto questo, l’affermata responsabilita' diretta
della clinica nei termini sopra indicati si risolve in un
apprezzamento di fatto esente da errori giuridici e che
sotto il profilo logico raggiunge un grado di completezza
e di ragionevolezza da essere incensurabile in sede di legittimita'.
Resta solo da aggiungere che la doglianza per la mancata
ammissione dei mezzi di prova richiesti, siccome «superflui
alla luce degli elementi acquisiti», e' a sua volta
inammissibile, alla luce del principio dell’autosufficienza
del ricorso per cassazione, poiche' la mancata indicazione
del relativo capitolato impedisce di valutarne la decisivita'.
Concludendo, anche il terzo motivo del ricorso incidentale
vanno rigettati.
Puo' finalmente passarsi all’esame del secondo motivo
del ricorso principale (in ragione del quale la causa e'
stata rimessa a queste sezioni unite), secondo il quale
i coniugi S. - G., denunciando la violazione e la falsa
applicazione degli articoli 1223 e 2059 Cc ed il vizio della
motivazione su un punto decisivo della controversia, in
relazione all’articolo 360 numero 3 e 5 Cpc, lamentano
che non sia stato loro riconosciuto il danno non patrimoniale
in quanto prossimi congiunti del minore offeso con gravi
lesioni personali da un fatto costituente reato.
Tale diniego e' stato motivato nell’impugnata sentenza
ritenendo «non risarcibile il pregiudizio non patrimoniale
per le lesioni riportate da un prossimo congiunto, non derivando
tale pregiudizio in via diretta ed immediata dall’illecito,
ma essendo un mero riflesso della menomazione e della sofferenza,
subite dall’infortunato».
La doglianza e' fondata.
Al riguardo, va innanzi tutto ricordato che un orientamento
della giurisprudenza di questa corte, fino a qualche anno
fa pressoche' pacifico, esclude che i prossimi congiunti
della persona offesa dal reato di lesioni personali, ancorche'
minore di eta', abbiano diritto al risarcimento dei danni
non patrimoniali, che peraltro viene riconosciuto nel caso
di morte della vittima (Cassazione 1421/98; 11396/97; 11414/92;
6854/88; 1845/76; 1056/73; 1658/72; 2915/71; 2037/00).
In questo quadro risulta isolata la decisione della Cassazione
penale 9113/83, secondo cui se i postumi invalidanti sono
talmente gravi da determinare la perdita delle piu' importanti
funzioni e capacita' dell’individuo, si' che egli
si riduce ad una mera vita vegetativa, il danno morale dei
prossimi congiunti e' danno risarcibile, dovendosi un tale
stato assimilarsi alla morte dell’offeso, con conseguente
pregiudizio morale ricadente in modo diretto ed immediato
sui parenti.
Le ragioni addotte a sostegno di questo orientamento sono
sinteticamente espresse proprio nell’ultima delle
decisioni elencate (2037/00) nei termini seguenti.
Innanzi tutto, la risarcibilita' viene escluda in virtu'
del principio fissato dall’articolo 1223 Cc (applicabile
all’illecito extracontrattuale per il richiamo contenuto
nell’articolo 2056 Cc), che vuole ricompresi nel risarcimento
unicamente i danni che siano conseguenza diretta e immediata
del fatto. La lesione fa soffrire immediatamente e direttamente
il danneggiato, mentre per i prossimi congiunti i danni
morali sono una conseguenza mediata e indiretta del fatto
e, come tali, non risarcibili.
Inoltre, la finalita' di prevenzione e repressione costantemente
sottesa ai danni non patrimoniali induce a privilegiare
un’opzione interpretativa diretta a limitare l’applicazione
degli articoli 185 e 2056 Cc alle sole persone offese dal
reato, anche considerando che, altrimenti, il danno costituirebbe
un duplicato di quello gia' riconosciuto alla vittima primaria
dell’illecito.
Non manca infine una considerazione piu' generale e di politica
del diritto, rappresentata dalla esigenza «di impedire
nella presente materia a carico del danneggiante alluvionali
effetti a cascata, esigenza avvertita anche nella legislazione
di altri stati».
Da questo orientamento si e' per prima discostata la sentenza
della terza sezione civile 4186/98, ove si rinviene una
accurata e puntuale confutazione delle considerazioni tradizionali.
La chiave di volta utilizzata per affermare la risarcibilita'
dei danni morali ai prossimi congiunti del soggetto che
ha subito lesioni personali e' costituita da una rivisitazione
del nesso di causalita' ai fini dell’individuazione
dei danni risarcibili e dall’inquadramento del danno
morale sofferto dai prossimi congiunti del soggetto leso,
nel danno riflesso o di rimbalzo.
I passaggi logici possono cosi' sintetizzarsi:
si afferma che il nesso di causalita' fra fatto illecito
ed evento puo' essere anche indiretto e mediato, purche'
il danno si presenti come un effetto normale, secondo il
principio della cosiddetta regolarita' causale (precisando
che la «cosiddetta teoria della causalita' adeguata
o della regolarita' causale», oltre che una teoria
causale e' anche una teoria dell’imputazione del danno).
Ne risulta insufficiente il riferimento al disposto dell’articolo
1223 Cc per escludere il risarcimento del danno morale in
favore dei congiunti del leso, poiche' non vi e' dubbio
che lo stato di sofferenza dei congiunti nel quale consiste
il loro danno morale, trova causa efficiente, per quanto
mediata, pur sempre nel fatto illecito del terzo nei confronti
del soggetto leso. Ad ulteriore confronto di questa rivisitazione
del nesso di causalita', si e' fatto riferimento alla figura
del cosiddetto danno patrimoniale riflesso, sulla scorta
della giurisprudenza francese, che parla di «danni
da rimbalzo», ovvero di «dommages par ricochet»
che colpiscono i proches della vittima, riconoscendo la
risarcibilita' delle lesioni di diritti, conseguenti al
fatto illecito altrui, di cui siano portatori soggetti diversi
dall’originario danneggiato, ma in significativo rapporto
con lui (Cassazione 60/1991, nel caso di richiesta di danni
patrimoniali da parte di un marito, costretto ad abbandonare
la sua attivita' per assistere la moglie invalida).
Il principio applicato e' sempre quello della regolarita'
causale, in quanto sono considerati risarcibili i danni
che rientrano nel novero delle conseguenze normali ed ordinarie
del fatto. Cosi' e' stato concesso il risarcimento del danno
per la lesione del diritto del coniuge ai rapporti sessuali,
in conseguenza di un fatto lesivo che abbia colpito l’altro
coniuge, cagionandogli l’impossibilita' di tali rapporti
(Cassazione 6607/86). Inoltre con riguardo a fatto illecito
che abbia colpito il congiunto senza causarne la morte,
e' stata riconosciuta la legittimazione dei prossimi congiunti
ad agire nei confronti dell’autore del fatto per ottenere
il risarcimento dei danni subiti in conseguenza delle lesioni
patite dal congiunto e cio' con riferimento non solo al
danno patrimoniale (danno-conseguenza), ma anche allo stesso
danno biologico (danno-evento, rientrante pur sempre nell’ambito
dell’articolo 2043 Cc) (Cassazione 8305/96).
La conclusione e' che se il danno morale dei congiunti della
vittima di una lesione puo' rientrare nell’ambito
dei danni riflessi, non vi e' un ostacolo alla risarcibilita'
per effetto della sua intima struttura.
A questo punto la sentenza e' passata ad esaminare se un
ostacolo possa essere costituito dalla struttura e/o dalla
funzione della norma che lo prevede e, cioe', dell’articolo
2059 Cc e dal combinato disposto di tale articolo e dell’articolo
185 Cp (che trovasi sotto il titolo delle «sanzioni
civili») prende atto che il recente ed incontrastato
orientamento della giurisprudenza penale distingue tra la
persona offesa dal reato (articolo 90 Cpp) – che e'
titolare del bene giuridico tutelato dalla norma –
ed il danneggiato civile – che e' il soggetto che
dal reato ha ricevuto un danno, non necessariamente coincidente
con la persona offesa – al quale e' riconosciuta la
legittimazione a costituirsi parte civile.
Alla stregua di questa impostazione ed ammessa, quindi,
la legittimazione a richiedere il risarcimento del danno
patrimoniale ad ogni soggetto che abbia subito un siffatto
pregiudizio dal reato, sia esso il soggetto passivo o non
lo sia, riconosce detta legittimazione relativamente al
danno non patrimoniale nei confronti del soggetto che l’abbia
subito (e quindi come tale sia danneggiato), pur senza essere
il soggetto passivo del reato (cfr. in tema di reato plurioffensivo
ex articolo 449 Cp la recentissima pronuncia di queste sezioni
unite 2515/02).
Infine, viene affrontata la questione se la pretesa irrisarcibilita'
possa conseguire alla particolare natura o funzione del
danno di cui all’articolo 2059 Cc ed esaminati gli
orientamenti dottrinali affermati al riguardo, si conclude
che qualunque natura si riconosca al risarcimento del danno
morale, essa risulta perfettamente compatibile, se non addirittura
rafforzativa, con la tesi proposta.
Se, infatti, gli si attribuisce natura risarcitoria o satisfattiva
dovra' riconoscersi l’equita' della corresponsione
di un risarcimento ad ogni soggetto danneggiato, in via
diretta o riflessa. Se si opta per la funzione punitiva,
il risarcimento anche del danno subito dai congiunti, insieme
a quello sopportato dalla vittima, non comporta alcuna ingiusta
duplicazione della punizione del colpevole, atteso che la
«punizione» in questione non e' quella penale
pubblicistica, ma quella privata accordata al danneggiato
civile; pertanto esisteranno tante pene da pagare, quanti
sono i danni morali conseguenti al reato. A questo indirizzo
innovativo, si sono uniformate tutte le successive pronunce
della terza sezione (4852/99; 13358/98; 5913/00; 10291/01).
Chiariti cosi' i termini del contrasto, le sezioni unite
ritengono di comporlo optando per la seconda soluzione,
quella della risarcibilita' del danno morale patito dai
prossimi congiunti del soggetto leso, completata e rafforzata
dalle seguenti considerazioni. E' innanzi tutto significativo
che la giurisprudenza, nell’intento di impostare correttamente
il problema, faccia fondamentale riferimento all’articolo
1223 Cc, sia per la tesi piu' restrittiva che per quella
estensiva piu' recente; e, soprattutto, che l’orientamento
qui accolto inquadri il danno morale del congiunto nella
figura del cosiddetto danno riflesso o di rimbalzo, rientrante
nella previsione del suddetto articolo 1223 che, secondo
tale costruzione, contemplerebbe tutti i danni conseguenti
al fatto illecito secondo un criterio di regolarita' causale.
Ma ad un ulteriore approfondimento, sembra doversi riconoscere
sostanziale e/o eziologia con i danni diretti, ma sta ad
indicare la propagazione delle conseguenze dell’illecito
(consistente in un danno alla persona) alle cosiddette vittime
secondarie, cioe' ai soggetti collegati da un legame significativo
con il soggetto danneggiato in via primaria.
La dottrina ha gia' chiarito che la questione della causalita'
di fatto e' regolata dagli articoli 40 e 41 e non dall’articolo
1223 Cc, il quale attiene all’oggetto dell’obbligazione
risarcitoria sul presupposto di un fatto dannoso completamente
definito e, quindi, riguarda il problema della selezione
dei danni risarcibili e non quello del nesso causale. In
termini di causalita', infatti, il rapporto esistente tra
il fatto del terzo ed il danno risentito dai prossimi congiunti
della vittima e' identico, sia che da tale fatto consegua
la morte, sia che da esso derivi una lesione personale.
In entrambi i casi esiste un rapporto da causa ad effetto
che, se e' diretto ed immediato nel primo caso, non puo'
non esserlo anche nel secondo. Non vi sono eziologie diverse
tra il caso della morte e quello delle semplici lesioni
perche' in entrambe le ipotesi esiste una vittima primaria,
colpita o nel bene della vita o nel bene della salute, e
una vittima ulteriore (il congiunto) anch’essa lesa
in via diretta ma in un diverso interesse di natura personale.
Ed in effetti esiste una recente pronuncia sempre della
stessa sezione che pur inserendosi nel filone giurisprudenziale
innovativo, ha ritenuto inconsistente «il tradizionale
argomento dell’ostacolo costituito dall’articolo
1223 Cc (argomento della causalita' diretta ed immediata),
in quanto il danno morale in favore dei congiunti trova
causa efficiente nel fatto del terzo, sicche' il criterio
di imputazione concerne la colpa e la regolarita' causale,
in quanto sono considerati risarcibili i danni che rientrano
nelle conseguenze ordinarie e normali del fatto».
Ed ha aggiunto «come contributo alla chiarificazione
della problematica, che appare fuorviante parlare di anno
riflesso o di rimbalzo, proprio perche' lo stretto congiunto,
convivente e/o solidale (per la doverosa assistenza) con
la vittima primaria, riceve immediatamente un danno consequenziale,
di varia natura (biologico, anche se puo' essere di ordine
psichico/morale, patrimoniale, e secondo recente dottrina
e giurisprudenza, anche esistenziale) che lo legittima iure
proprio ad agire contro il responsabile dell’evento
lesivo» (Cassazione 1516/01).
Questa impostazione, allargando le frontiere del danno risarcibile,
sembra tuttavia aggravare il problema – fortemente
sotteso nell’orientamento opposto ma comunque rispondente
ad una reale esigenza di politica giudiziaria, «dell’allargamento
a dismisura dei risarcimenti di danno morale». Questione
complessa e ben presente alla riflessione di questa corte,
fin dalla inaugurale sentenza 4186/98, ma ivi ritenuta un
posterius da risolvere «come per il danno patrimoniale
o biologico riflesso dei prossimi congiunti, non solo sulla
base di una rigorosa prova dell’esistenza di questo
danno, evitando di rifugiarsi dietro il «notorio»,
ma anche alla stregua di un corretto accertamento del nesso
di causalita', da intendersi come causalita' adeguata (o
regolarita' causale)». Ed allora l’attenzione
deve spostarsi dal danno al danneggiato, poiche' il problema
cruciale diviene non tanto quello della propagazione di
un unico danno, bensi' quello della individuazione delle
cosiddette vittime secondarie; problema accennato nella
citata sentenza 4186/98 accomunandolo a quello del nesso
causale, ma senza un particolare approfondimento e, soprattutto,
ritenendolo anch’esso un posterius laddove, sotto
il profilo logico-giuridico, costituisce invece un prius,
attenendo all’interesse ed alla legittimazione ad
agire.
Il tema non e' nuovo, essendo stato ampiamente dibattuto
con riferimento alla liquidazione del danno morale conseguente
alla morte del congiunto. La questione ha acquistato, pero',
ulteriore spessore in relazione alla risarcibilita' dei
danni morali anche per le lesioni subite dal familiare.
In fatti, per un verso si e' ampliata l’area della
risarcibilita', per altro verso si sono poste le basi perche'
possa discutersi della liquidazione di danni morali ai terzi
anche in ipotesi diverse da quella delle lesioni personali,
quali, ad esempio, l’ingiuria o la diffamazione.
Il criterio indicato dalla piu' recente dottrina per la
selezione delle cosiddette vittime secondarie aventi diritto
al risarcimento del danno, pur nella varieta' degli approcci,
e' quello della titolarita' di una situazione qualificata
dal contatto con la vittima che normalmente si identifica
con la disciplina dei rapporti familiari, ma non li esaurisce
necessariamente, dovendosi anche dare risalto a certi particolari
legami di fatto. Questa situazione qualificata di contatto,
la cui lesione determina un danno non patrimoniale, identifica
dunque la sfera giuridica di coloro che appaiono meritevoli
di tutela e al tempo stesso costituisce limite a tale tutela.
Specificando ulteriormente il criterio, con riguardo ai
risultati del dibattito, si osserva: a) l’individuazione
della situazione qualificata che da' diritto al risarcimento
trova un utile riferimento nei rapporti familiari, ma non
puo' in questi esaurirsi, essendo pacificamente riconosciuta,
sia in dottrina che nella giurisprudenza, la legittimazione
di altri soggetti (ad esempio la convivente more uxorio);
b) la mera titolarita' di un rapporto familiare non puo'
essere considerata sufficiente a giustificare la pretesa
risarcitoria, occorrendo di volta in volta verificare in
che cosa il legame affettivo sia consistito e in che misura
la lesione subita dalla vittima primaria abbia inciso sulla
relazione fino a comprometterne lo svolgimento.
Del resto la stessa Corte costituzionale, con riguardo ai
limiti soggetti di risarcibilita' del danno non patrimoniale
ex articolo 2059 Cc, aveva chiarito che in quella ipotesi,
essendo il danno patito dal terzo eccezionalmente risarcibile
sul solo presupposto di essere stato cagionato da un fatto
illecito penalmente qualificato, «la tutela risarcitoria
deve fondarsi su una relazione di interesse del terzo col
bene protetto dalla norma incriminatrice, argomentabile,
in via di inferenza empirica, in base ad uno stretto rapporto
familiare (o parafamiliare, come la convivenza more uxorio)
(sentenza 372/1994).
Tirando i fili del discorso e concludendo, il contrasto
devoluto all’esame di questa Sezioni Unite viene composto
affermando il seguente principio di diritto: «ai prossimi
congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto
illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche
il risarcimento del danno morale concretamente accertato
in relazione ad una particolare situazione affettiva con
la vittima, non essendo ostativo il disposto dell’articolo
1223 Cc, in quanto anche tale danno trova causa immediata
e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione
del congiunto ad agire iure proprio contro il responsabile».
Non e' superfluo aggiungere che questa conclusione appare
in sostanziale sintonia con la risoluzione adotta dal Consiglio
d’Europa il 14 marzo 1975 (Re'solution (75) 7 «re'lative
a' la re'paration des dommage en cas de lesions corporelles
e de de'ce's», che ha indicato, per gli stati che
ammettono questa forma di risarcimento e al fine di uniformare
i principi, i criteri per il riconoscimento dei danni da
lesione corporale del prossimo congiunto. Al punto 13 e'
previsto, con formula peraltro eccessivamente restrittiva,
che «il padre, la madre e il congiunto della vittima
che, in ragione di una lesione all’integrita' fisica
o psichica, subiscano delle sofferenze psichiche per le
lesioni fisiche o psichiche delle quali e' stata oggetto
la vittima stessa, non possono ottenere un risarcimento
di questo pregiudizio che in presenza di sofferenze di carattere
eccezionale; altre persone non possono pretendere tale risarcimento».
Ed, inoltre, con il disegno di legge 4093 «nuova disciplina
in materia di danno alla persona», noto anche come
«Progetto Isvap» che prevede la risarcibilita'
del danno morale dei prossimi congiunti in ipotesi di lesione
dell’integrita' psicofisica del danneggiato pari o
superiore al 50% di invalidita'.
In entrambi i casi, viene riconosciuto il principio della
legittimazione ad agire dei congiunti della vittima di lesioni
personali, limitandone pero' l’operativita' al caso
di lesioni e/o sofferenze di particolare gravita'. Orbene,
tornando all’esame del secondo motivo del ricorso
principale, esso va accolto poiche' il giudice di appello,
negando il danno morale ai congiunti piu' prossimi (genitori)
del minore gravemente leso, ha statuito in modo difforme
dal principio sopraenunciato.
Composto il contrasto devoluto alla competenza di queste
Sezioni Unite, gli atti sono restituiti alla sezione di
provenienza per l’esame degli ulteriori motivi (primo
del ricorso principale e quinto di quello incidentale, ambedue
attinenti al quantum risarcitorio), ai sensi dell’articolo
142 disp. att. Cpc, e la regolamentazione delle spese del
grado.
PQM
La corte riunisce i ricorsi, rigetta i primi quattro motivi
del ricorso incidentale, accoglie il secondo motivo del
ricorso principale e rimette gli atti alla terza sezione
civile per il prosieguo.
La redazione di megghy.com
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