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Trib. Palermo, 8 giugno 2001 [Giud. De Gregorio]
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato in data 25/27 febbraio
1999, Giuseppe Bonaparte conveniva in giudizio la SAI Società
Assicuratrice Industriale s.p.a. s.p.a. e Giuseppe Armanno,
per sentirli condannare alla rifusione dei danni subiti
in conseguenza di sinistro stradale verificatosi in data
28 febbraio 1997 sul cittadino corso dei Mille, allorquando
la bicicletta condotto dal di lui padre Giovanni Bonaparte
venne investita dall'autovettura Renault Clio tg. PA A42895,
assicurata per la r.c. auto con la SAI s.p.a., di proprietà
e condotta da Giuseppe Armanno, vettura che procedeva lungo
detta via con direzione di marcia opposta a quella del ciclista.
A seguito dell'urto, continuava l'attore, il congiunto riportò
gravissime lesioni, che ne determinarono l'immediato decesso.
Deducendo l'esclusiva responsabilità dell'Armanno
nella causazione del sinistro, concludevano chiedendo ritenere
l'Armanno e la SAI s.p.a. responsabili in solido del sinistro,
conseguentemente condannando i convenuti in solido al pagamento
in favore dell'attore, per la perdita del padre, a titolo
di risarcimento per tutti i danni subiti, quantificati nella
somma complessiva di Lire 378.018.000 (lire 76.338.000 quale
danno patrimoniale in proiezione futura -lire 300.000.000
per danno non patrimoniale- lire 1.680.000 per danno emergente),
oltre interessi e rivalutazione monetaria con decorrenza
dall'evento per cui è causa; e con vittoria delle
spese di lite.
Si costituiva in giudizio solo la società assicuratrice,
contestando in toto le pretese risarcitorie attoree, sia
in punto di voci di danno che di quantificazione delle stesse.
E concludeva chiedendo di liquidare in favore dell'attore
il danno patrimoniale nei limiti del dovuto (non contestando
quanto afferente le spese funerarie e di trasporto/custodia
del velocipede del de cuius), oltre rivalutazione ed interessi
dalle date degli esborsi al soddisfo; di liquidare il danno
morale nella giusta misura equitativa con riferimento all'effettiva
intensità del dolore e del perturbamento psichico
sofferto dall'attore stesso, oltre agli interessi dalla
data della sentenza al soddisfo; di rigettare le ulteriori
infondate e non provate domande attoree, e compensare integralmente
tra le parti spese e compensi del giudizio.
Nel corso dell'istruzione venivano acquisiti gli atti del
procedimento penale relativo al sinistro, assunta prova
testimoniale con i testi Giovanna Guaiana e Lucia Guaiana;
alla udienza del 4 novembre 1999 veniva altresì emessa,
in favore dell'attore, ordinanza di pagamento ex art. 186
bis c.p.c. per l'ammontare di lire 4.918.800, oltre interessi.
Infine, sulle conclusioni adottate dalle parti, la causa
veniva posta in decisione all'udienza del 1° febbraio
2001, con assegnazione dei termini di legge per lo scambio
degli atti difensivi conclusionali.
Motivi della decisione
In via preliminare deve darsi atto della proponibilità
in rito della domanda attrice, alla luce della richiesta
stragiudiziale inviata alla compagnia convenuta, ex art.
22 l. 990/1969, con raccomandata a/r versata in copia in
atti.
Nel merito, dalle difese spiegate dalla assicuratrice convenuta
e dalla documentazione prodotta, e segnatamente dagli atti
del procedimento penale istruito a seguito del sinistro
per cui è causa (e conclusosi con la sentenza di
applicazione della pena ex art. 444 c.p.p nei confronti
di Giuseppe Armanno, pronuncia prodotta in copia), deve
ritenersi accertata la esclusiva responsabilità di
quest'ultimo per lo scontro frontale del 28 febbraio 1997,
avvenuto sul cittadino corso Dei Mille, tra l'autovettura
Renault Clio tg. PA A42895 condotta da Giuseppe Armanno
e l'altro veicolo, la bicicletta condotta e di proprietà
di Giovanni Bonaparte. Difatti, lo scontro si concretizzò
allorquando l'autovettura ebbe ad invadere l'opposta corsia
di marcia sulla quale transitava Giovanni Bonaparte, il
quale transitava regolarmente a destra. Per effetto dell'urto,
il conducente del velocipede riportò gravissime lesioni,
che ne cagionarono l'immediato decesso.
Date queste considerazioni, va ricordato che la presunzione
di pari responsabilità per come prevista dall'art.
2054 comma 2 c.c. ha carattere sussidiario, dovendosi applicare
soltanto nel caso in cui sia impossibile accertare in concreto
il grado di colpa di ciascuno dei conducenti coinvolti nel
sinistro (cfr. Cassazione civile sez. III, 28 maggio 1996,
n. 4909).
Nel caso di specie, l'accertamento della esclusiva colpa
dell'Armanno e della regolare condotta di guida del Bonaparte
(che traspare, peraltro, dalla stessa motivazione della
sentenza penale emessa nei confronti di Giuseppe Armanno),
per le violazioni alle norme del Codice della Strada che
impongono ai conducenti di mantenere la destra e di mantenere
una velocità adeguata alle condizioni di tempo e
di luogo (artt. 143 e 141 D.lgs. 285/1992), consente di
superare detta presunzione, e di ritenere responsabile,
in concreto, del sinistro Giuseppe Armanno. Ne consegue
che i convenuti, ciascuno per il rispettivo titolo, vanno
ritenuti responsabili del sinistro di cui è causa,
e condannati al risarcimento dei danni patiti dall'attore.
Venendo quindi alle singole domande, Giuseppe Bonaparte
chiede intanto il ristoro del danno morale: tale richiesta
necessita di talune considerazioni.
Tra le più dibattute questioni in tema di danno non
patrimoniale, si inserisce quella riguardante l'individuazione
dei soggetti legittimati a pretendere il ristoro per tale
voce risarcitoria. In generale, si riconosce la legittimazione
attiva esclusivamente alla vittima del reato; ma in alcune
ipotesi si prospetta l'eventualità che, pur essendo
unica la vittima del reato, l'illecito manifesti una potenzialità
plurioffensiva, con la conseguenza che va accordata la tutela
anche a soggetti diversi dalla vittima: ciò è
quanto accade nell'ipotesi di illecito che abbia cagionato
la morte della vittima. In tale ipotesi, il ristoro del
danno non patrimoniale viene attribuito a soggetti diversi
dalla vittima, purché il decesso sia causalmente
ricollegabile al fatto illecito, e quest'ultimo presenti
gli elementi essenziali perché possa astrattamente
configurarsi come reato.
La legittimazione viene cioè attribuita ai prossimi
congiunti in vista della sussistenza in capo a costoro di
sofferenze e patemi d'animo, cagionati dalla perdita della
persona cara e immediatamente ricollegabili all'illecito
(cfr. Cassazione civile 7.5.1983 n. 3116), in ciò
sustanziandosi il danno di che trattasi: il problema ulteriore,
allora, sta nella individuazione, nell'ampia cerchia dei
congiunti, dei soggetti ai quali riconoscere la legittimazione
a pretendere il ristoro.
Secondo l'orientamento tradizionale del Supremo Collegio
(cfr. la pronuncia da ultimo richiamata) “il risarcimento
del danno non patrimoniale, derivante dalla morte ex delicto,
va riconosciuto in favore dei prossimi congiunti, iure proprio,
cioè indipendentemente dalla loro qualità
di eredi, quando il rapporto di stretta parentela con la
vittima, le condizioni personali ed ogni altra circostanza
del caso concreto evidenzino un grave perturbamento del
loro animo e della loro vita familiare, per la perdita di
un valido sostegno morale, e, pertanto, a prescindere dall'eventuale
pregressa cessazione della situazione di convivenza con
la vittima medesima, la quale di per sé non può
configurare elemento indiziario idoneo a sorreggere la congettura
del venir meno della comunione spirituale fra congiunti,
con conseguente riduzione della sofferenza dei superstiti
a un livello giuridicamente irrilevante”.
Dunque la risarcibilità dei danni morali per la morte
di un congiunto presuppone, oltre al rapporto di parentela,
anche la perdita, in concreto, di un effettivo e valido
sostegno morale, non riscontrabile in mancanza di una situazione
di convivenza, ove si tratti di soggetto che, per il tipo
di parentela, non abbia diritto di essere assistito anche
moralmente dalla vittima (cfr. Cass., sez. III, 23 giugno
1993, n. 6938).
Sviluppando tali indicazioni, ed in mancanza di precipue
disposizioni normative sul punto, ritiene questo Decidente
di accedere alle seguenti regole - proposte da Trib. Trento
19 maggio 1995, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 1017
- per il riconoscimento della legittimazione:
a) devono senz'altro considerarsi come aventi diritto il
coniuge, i figli (anche in tenera età), i genitori,
i fratelli e le sorelle: in breve, tutti i componenti della
cosiddetta famiglia nucleare, per i quali appare irrilevante
anche la cessazione della convivenza;
b) quanto agli altri parenti ed affini (nonni, nipoti, zii,
cugini, cognati, ecc.), la legittimazione può esser
loro riconosciuta soltanto se, oltre all'esistenza del rapporto
di parentela o di affinità, concorrano ulteriori
circostanze atte a far ritenere che la morte del familiare
abbia comportato la perdita di un effettivo e valido sostegno
morale, non riscontrabile in mancanza di una situazione
di convivenza, ove si tratti di soggetto che, per tipo di
parentela, non abbia diritto ad essere assistito anche moralmente
dalla vittima.
In altri termini, per gli stretti congiunti, di cui al gruppo
a), la legittimazione a chiedere il risarcimento per il
danno morale non richiede altra verifica che quella del
rapporto di stretta parentela, salva la prova (che dovrà,
secondo le regole generali, fornire il danneggiante) che,
nonostante il legame di parentela, il rapporto tra superstite
e vittima era deteriorato al punto tale da escludere che
il primo abbia sofferto per la morte della seconda. Per
gli altri parenti, di cui al gruppo b), non basta la dimostrazione
del rapporto di parentela o affinità, e chi richiede
il risarcimento deve fornire la dimostrazione che, con la
morte della vittima, ha perduto un effettivo e valido sostegno
morale.
Da tutte tali considerazioni, e in base agli elementi forniti
al decidente - in particolare, la relazione di parentela
e la convivenza - può riconoscersi il danno morale
“riflesso” chiesto dall'attore. Per quanto attiene
alla valutazione, questo danno sfugge, in virtù del
suo contenuto etico, ad una precisa quantificazione ed è,
pertanto, di natura essenzialmente equitativa; tuttavia,
va rispettata l'esigenza di una razionale correlazione tra
l'entità oggettiva del danno (specie se destinato
a protrarsi nel tempo) e l'equivalente pecuniario, in modo
che questo, tenuto conto del potere di acquisto della moneta,
mantenga la sua connessione con l'entità e la natura
del danno da risarcire, e non rappresenti un mero simulacro
o una parvenza di risarcimento (cfr. Cass., sez. III, 21
maggio 1996, n. 4671; sez. III, 11 giugno 1998, n. 5795).
Può quindi operarsi un criterio che, pur rimanendo
essenzialmente equitativo, offra un parametro di riferimento
concreto, anche in relazione all'esigenza di indicare gli
estremi logico-giuridici e fattuali che hanno guidato la
quantificazione (cfr. Cass., sez. II 11 febbraio 1998, n.
1382): si liquida, allora, sulla base del danno morale che
sarebbe spettato al defunto se, anziché morire, avesse
riportato una invalidità del 100%, tenendo pure conto
delle esigenze del caso di specie, e cioè dell'età
della persona offesa e del dolore arrecato ai familiari
per la sua morte e di tutte le circostanze ed elementi della
fattispecie in modo da rendere la somma liquidata il più
possibile adeguata all'effettivo pretium doloris. Ciò
utilizzando un parametro di riferimento preciso, rappresentato
dalle tabelle in uso presso questo Tribunale per la liquidazione
del danno biologico e del morale.
Pertanto, considerando che Giovanni Bonaparte al momento
del sinistro aveva sessantadue anni, secondo i parametri
adottati dal Tribunale per la determinazione del danno morale
(da ¼ alla metà rispetto alla quantificazione
del danno biologico, determinato a sua volta con “criterio
tabellare” ormai noto), gli sarebbe potuta spettare,
se fosse rimasto in vita, una somma oscillante tra Lire
152.900.000 e 305.800.000 - in valuta attuale: valore punto
8.800.000, coefficiente per l'età 0.695 - quale danno
non patrimoniale, può allora liquidarsi al figlio
superstite (in relazione al caso specifico, apprezzandosi
cioè la circostanza che il de cuius e il figlio costituivano
gli unici due componenti di una famiglia, ed equitativamente)
la cifra di Lire 230.000.000, in valuta attuale (pari a
circa 1/3 di quell'ipotetico danno biologico utilizzato
quale parametro di riferimento).
Deduce poi l'attore di aver subito, a causa dell'illecito,
un ulteriore pregiudizio, identificato nel cd. “danno
biologico in senso lato” o “danno esistenziale”,
ma così solo genericamente indicato in citazione,
senza cioè alcun elemento in ordine alla portata
e al contenuto di tale danno (in che cosa consista, come
sia emerso, che quantum risarcitorio richieda); anzi, in
detto atto ha fatto espressa riserva di specificare in corso
di giudizio l'essenza di tale pregiudizio, e di operarne
la relativa quantificazione.
Deve allora osservarsi la assoluta genericità ed
indeterminatezza della richiesta, e la tardività
della specificazione (addirittura mancando qualsiasi riferimento
in comparsa conclusionale), che, trattandosi di precisazione
della domanda, avrebbe dovuto operarsi entro il termine
perentorio assegnato, a mente dell'ultimo comma dell'art.
183 c.p.c., operata invece solo dopo lo spirare di detto
termine, ed implicitamente, con le deduzioni allegate al
verbale di udienza del 3 febbraio 2000. Va poi aggiunto
che in sede di precisazione delle conclusioni l'attore si
è riportato alla citazione e agli atti di causa,
senza alcun riferimento a quanto addotto in seno alla richiamata
udienza, e specificando le poste risarcitorie con riferimento
al danno patrimoniale e non patrimoniale, ma senza nulla
aggiungere in punto di danno esistenziale.
Ora, per meglio comprendere perché debba ritenersi
indeterminata, e come tale da rigettare, detta pretesa attorea,
vanno premesse talune considerazioni di ordine generale
sul cd. danno esistenziale.
Tale nuova figura comincia a delinearsi in dottrina in coincidenza
con una diffusa tendenza alla valorizzazione dell'individuo
al di là della sfera economica, e che trova appiglio
nella Carta Costituzionale -art. 3 comma 2-, per come peraltro
evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. pronuncia
10 maggio 1999, n. 167). La salvaguardia della persona diventa
perciò il mezzo per consentire che ciascun individuo
possa realizzare liberamente la propria dimensione esistenziale.
E così, le nuove figure di danno via delineate a
partire dagli anni 70, quali il danno alla vita di relazione,
il danno all'identità sessuale, sino al danno biologico
per come rimodulato dalla Corte Costituzionale con la nota
pronuncia n. 184 del 1986 - che lo ha definitivamente ancorato
al sistema di tutela ex art. 2043 c.c. - presentano tutte
un comune elemento: la tutela risarcitoria da accordare
al danneggiato a fronte della modificazione peggiorativa
della fase dinamica della propria esistenza, cioè
l'esplicazione della propria individualità.
Il danno biologico rappresentò un essenziale punto
di arrivo in tal senso, in considerazione della centralità
del ruolo della salute rispetto l'individuo, incidendo sulla
persona considerata nei suoi riflessi spirituali, culturali,
affettivi, etc. (cfr. Corte Costituzionale 18 luglio 1991,
n. 356); divenne quindi categoria autonoma di nocumento,
che coesiste e si affianca all'eventuale danno patrimoniale
stricto sensu inteso come pregiudizio correlato all'efficienza
lavorativa e quindi alla capacità di reddito del
soggetto leso, rappresentando la lesione alla integrità
psico-fisica della persona.
Dunque, la tutela risarcitoria da accordare in caso di lesione
del bene salute (fisica o psichica) viene ad avere assegnata
un ampia latitudine, proprio per le molteplici implicazione
che la compromissione della salute ha sulla qualità
della vita.
E così, il passaggio dal danno biologico al danno
esistenziale come lesione alla qualità della vita,
come compromissione della sfera di realizzazione della persona
(voce di danno che comincia a trovare spazio, seppur implicito,
anche nella giurisprudenza della Suprema Corte, sin da Cass.
11 novembre 1986, n. 6607, su Foro it., 1987, I, 833, ove
si dice che anche il diritto reciproco di ciascun coniuge
ai rapporti sessuali con l'altro coniuge è diritto
inerente alla persona: è un diritto riguardante,
ed avente per contenuto, un modo di essere, un aspetto dello
svolgimento della persona di ciascun coniuge nell'ambito
della famiglia, società naturale fondata sul matrimonio,
formazione sociale ove si svolge la personalità dell'uomo,
i cui diritti inviolabili sono costituzionalmente riconosciuti
e garantiti. Come tale, in quanto diritto della persona,
in un aspetto del suo essere e svolgersi nella famiglia,
va equiparato al diritto alla salute, quale diritto della
persona all'integrità fisio-psichica; cfr. pure Cass.
2 febbraio 2001, n. 1516), diviene quasi obbligatorio, soffermandosi
sui riflessi negativi che l'illecito provoca sulla dimensione
personale della vittima (in riferimento alla relazioni affettivo-familiari,
ai rapporti sociali, alle attività culturali, agli
svaghi, ai divertimenti), senza incidere sulla salute della
stessa.
Il danno biologico, allora, altro non è se non un
danno esistenziale; cioè un sottotipo di quest'ultimo.
In dottrina, la distinzione tra dette voci di danno viene
posta non già sul piano delle conseguenze, trattandosi
comunque di ripercussioni attinenti alla qualità
della vita, bensì su ciò che in origine viene
colpito: nel caso del danno biologico vi è un evento
corrispondente alla lesione della salute di qualcuno (fisica,
psichica), suscettibile di accertamento medico-legale e
risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla
capacità di produzione di reddito del danneggiato;
nell'altro caso - danno esistenziale non-biologico - ci
si trova di fronte all'aggressione di posizioni d'altro
genere (onore, libertà di movimento, ambiente, normalità
familiare, etc.), senza la lesione del bene salute quale
antecedente indefettibile.
Corretta potrà essere invece, e al tempo stesso proficua,
una comparazione delle attività realizzatrici della
persona che appaiono destinate a rimanere indebolite - rispettivamente
- nell'una e nell'altra ipotesi. Cosicché, schematizzando,
potranno aversi a) attività che soltanto una lesione
al bene salute potrà, di regola, incrinare; b) attività
insidiabili soltanto dall'attentato a prerogative diverse
dalla salute; c) attività suscettibili di venire
lese, secondo modalità più o meno diverse,
sia in una ipotesi che nell'altra.
Vanno poi rimarcate alcune differenziazioni, onde evitare
che tale nuova voce risarcitoria si sovrapponga ad altre
già riconosciute. Intanto, col danno psichico, inteso
questo quale lesione della salute mentale, e quindi rilevante
quale malattia, per cui il fulcro è rappresentato
dalla lesione alla salute, per se stessa considerata, che
invece non si ha col danno esistenziale. Cosicché
il primo si colloca (sulla scia di Corte Cost. 184 del 1986)
nell'area dell'evento; il secondo in quella delle conseguenze
operative, dinamiche, proprie della vita di ogni giorno.
Più problematica può poi apparire la linea
di confine col danno morale: quest'ultimo, difatti, è
forse quello di più difficile definizione, anche
in relazione alle diverse interpretazioni offerte dalla
stessa Corte Costituzionale. Se è evidente può
risultare la differenza sul terreno della disciplina (da
un lato l'art. 2059 c.c., dall'altro le norme ordinarie
sulla responsabilità), è sul piano delle conseguenze
per la persona che deve porsi notevole attenzione.
In sintesi, (sulla scia di quanto già detto supra
a proposito del danno morale patito da Giuseppe Bonaparte)
può sostenersi (con la migliore dottrina) che il
danno morale è essenzialmente un sentire, il danno
esistenziale è piuttosto un non poter più
fare, un dover agire altrimenti. L'uno attiene per sua natura
alla sfera dell'emotività; l'altro concerne il modo
di estrinsecarsi, il rapportarsi agli altri della vittima.
Nel primo, secondo la distinzione che se ne fa in dottrina,
è destinata a rientrare la considerazione del pianto
versato, degli affanni, il cd. pretium doloris; nell'altro
l'attenzione per i rovesciamenti forzati dell'esistenza,
del complessivo modus vivendi. Con una sola nota comune
(che può desumersi dalla lettura che dà del
danno morale Corte Costituzionale 472/1994): in ambedue
i casi si tratta di “conseguenze” dell'evento
iniziale, divergendo profondamente nel resto.
Potranno dunque aversi fatti illeciti che arrecano unicamente
danni morali; altri soltanto danni esistenziali; altri ancora
sia i primi che i secondi.
Dovendosi, quindi, prescindere in questa sede da altre considerazioni
sul danno esistenziale, sulla sua compatibilità col
sistema risarcitorio aquiliano, la domanda attorea sul punto
va perciò rigettata. Difatti, l'allegazione e la
prova atta a delineare tale tipo di danno devono essere
quanto più possibile determinate, onde evitare il
rischio (concreto) di sovrapposizioni.
Senza precisare (almeno tempestivamente, secondo quanto
già evidenziato) il contenuto della lesione patita,
l'attore ha comunque chiesto ammettersi prova testimoniale,
col medico di fiducia della famiglia Bonaparte, sui seguenti
articolati: “vero è che considerata la specifica
composizione del nucleo familiare e tenuto anche conto della
particolare sensibilità del Sig. Bonaparte Giuseppe,
quest'ultimo ha avvertito in modo significativo il cambiamento
di abitudini della sua vita, dovendo vivere da solo in quella
casa che per anni ha abitato unitamente al padre?”;
“vero è che il precitato dopo la morte del
genitore e per un notevole periodo di tempo ha avuto considerevole
difficoltà a realizzare compiutamente la propria
personalità nello svolgimento delle quotidiane attività?”;
“vero è che dopo la verificazione di tale traumatico
evento, la sfera di realizzazione del Sig. Bonaparte Giuseppe
è stata per un rilevante lasso temporale compromessa,
rimanendo quindi intaccate durante tale periodo la sua individualità
e la sua dimensione personale?”.
E' evidente, allora, la genericità e l'ininfluenza
di tali articolati: genericità, perché nessuno
di essi, concretamente, mira a dimostrare in che cosa, in
quali aspetti la vita dell'attore risulti modificata; ininfluenti,
perché comunque evidente è la delimitazione
temporale operata dallo stesso attore, dovendosi osservare
invece che laddove la variazione dell'esistenza sia temporanea,
essa certamente - secondo l'id quod plerumque accidit -
risente del cd. periodo di lutto, ovvero dell'influenza
dell'evento sul soggetto per un periodo determinato, con
riflesso sì sulle ordinarie abitudini e sulle scelte
della vita quotidiana, ma per un periodo limitato, più
o meno ampio, all'esito del quale, gradatamente il soggetto
(dell'età dell'attore, ventiseienne al momento del
fatto) riprenderà, pur nel ricordo del soggetto che
non è più, le pregresse occupazioni, ciò
rientrando nel pretium doloris.
Invece, la lesione alla qualità della vita è
incidente in maniera definitiva sul modus vivendi del soggetto,
di guisa che nulla potrà essere più come prima
(si pensi, ad esempio, al genitore costretto a vivere col
figlio privato degli arti; ovvero al bambino cresciuto senza
l'apporto di uno dei genitori).
Dunque, nel caso di specie, laddove peraltro non può
farsi ricorso a presunzioni (che il figlio adulto perda
il genitore rientra nello schema naturale delle cose, a
differenza del contrario), è mancata la prova, né
è stato chiesto di provare, che l'evento letale abbia
inciso sulla sfera qualitativa dell'esistenza di Giuseppe
Bonaparte in maniera drastica e risolutiva.
Per tutte tali considerazioni la pretesa attorea sul punto
va rigettata.
Il Bonaparte chiede poi il ristoro del danno patrimoniale,
sotto il profilo 1) dell'apporto economico venuto meno a
seguito del decesso del padre, cioè della perdita
della quota-parte di reddito al medesimi destinata dal de
cuius per il periodo di permanenza nel nucleo familiare;
nonché 2) degli esborsi causalmente ricollegabili
all'illecito.
Quanto alla prima voce di danno, il risarcimento del danno
richiesto integra il cd. danno patrimoniale futuro risarcibile
a favore dei congiunti della vittima - deceduta a seguito
di fatto illecito -, da ravvisarsi, secondo l'insegnamento
della giurisprudenza, nella perdita o nella diminuzione
di quei contributi patrimoniali e di quelle utilità
economiche, che, sia in relazione ai precetti normativi
che per la pratica di vita improntata a regole etico-sociali
di solidarietà familiare e di costume, presumibilmente
il soggetto venuto meno prematuramente avrebbe apportato,
alla stregua di una valutazione che faccia ricorso anche
alle presunzioni e ai dati ricavabili dal notorio e dalla
comune esperienza, con riguardo a tutte le circostanze del
caso concreto (cfr. Cass., sez. III, 26 novembre 1996, n.
1474).
In particolare, l'aspettativa degli stretti congiunti ad
un contributo economico da parte del familiare prematuramente
scomparso in tanto integra un danno futuro risarcibile in
quanto sia possibile presumere, in base ad un criterio di
normalità fondato su tutte le circostanze del caso
concreto, che un contributo economico la persona defunta
avrebbe effettivamente apportato (cfr. Cass., sez. III,
14 febbraio 2000, n. 1637).
Nel caso di specie, all'esito dell'istruzione, e segnatamente
delle prove testimoniali espletate, è risultato acclarato
il carattere della durevolezza e della costanza delle erogazioni
prestate dal de cuius al figlio, nonché la quantità
delle stesse, da rapportare essenzialmente (come riferito
dalla teste Lucia Guaiana) ai costi di gestione dell'attività
libero-professionale - ragioniere commercialista - intrapresa
dall'odierno attore nel 1995 (come da certificazione del
collegio dei Ragionieri della Provincia di Palermo, prodotta
dall'attore).
Tuttavia, a differenza di quanto addotto dal Riccobono,
manca la prova, né può desumersi in via presuntiva,
che dette elargizioni sarebbero continuate costantemente
per il lungo periodo indicato dall'attore (dieci anni),
e nella quantità indicata (percentuale fissa del
reddito da pensione goduto dal de cuius). Anzi, le presunzioni
depongono in senso inverso: se infatti dalle copie delle
dichiarazioni dei redditi prodotte si evince che in effetti
nei primi due anni l'attività libero professionale
non offriva che un reddito insoddisfacente (lire 4.051.000
per il 1995 e Lire 2.617.000 per il 1996), è pur
vero che può presumersi un costante e graduale aumento
per gli anni successivi, e tale da erodere in misura inversamente
proporzionale l'aiuto paterno sino ad eliminarlo del tutto.
D'altronde, l'attore, pur avendone l'onere, nulla ha provato
per smentire tale considerazione basata su dati di comune
esperienza; in particolare, questi - almeno sino allo scadere
dei termini per le deduzioni istruttorie ex art. 184 c.p.c.
- ben avrebbe potuto produrre le copie delle dichiarazioni
dei redditi relative agli anni successivi, onde offrire
un quadro quanto il più possibile esauriente al Tribunale.
In particolare, dovendosi osservare che la valutazione di
tale posta risarcitoria non può che essere equitativa,
appunto non potendosi dare per scontata la quantità
delle contribuzioni via via elargite, avrebbe dovuto offrire
l'attore ogni utile elemento per agganciare la quantificazione
a parametri sicuri. Seppur vero è, comunque, che,
allo stato, è impossibile pervenire ad una “esatta
stima dei danni”, è anche vero che la lettura
dell'art. 1226 c.c. può offrire una soluzione: va
infatti rammentato l'insegnamento del Supremo Collegio,
per cui “il giudice adito con azione di risarcimento
di danni può e deve, anche di ufficio, procedere
alla liquidazione degli stessi in via equitativa nell'ipotesi
in cui sia mancata interamente la prova del loro preciso
ammontare per l'impossibilità della parte di fornire
congrui e idonei elementi al riguardo, ma anche nell'ipotesi
che, pur essendosi svolta un'attività processuale
della parte volta a fornire questi elementi, il giudice,
per la notevole difficoltà di una precisa quantificazione,
non li abbia tuttavia riconosciuti di sicura efficacia”
(Cass., sez. I, 19 marzo 1991, n. 2934).
Allora, in base agli scarni elementi forniti, può
ritenersi che le contribuzioni del de cuius si sarebbero
protratte per il triennio successivo al sinistro, verosimilmente
con andamento via via in diminuzione; e perciò, fissandosi
l'ammontare di esse per l'anno 1996 in Lire 5.180.000 (pari
a Lire 5.179.000, ovvero la somma dei costi di gestioni
per quell'anno risultanti dalla dichiarazione dei redditi
- col. E21 - e secondo quanto riferito dalla teste prima
richiamata), può liquidarsi, equitativamente e in
valuta attuale, l'ammontare di Lire 15.000.000, cifra che
tiene conto, come detto, del verosimile apporto complessivo.
L attore, infine, chiedono il ristoro del danno patrimoniale
afferente le spese funerarie sostenute a seguito del decesso
del congiunto, e quelle relative, al danneggiamento, al
trasporto e alla custodia del velocipede del padre.
Per quanto attiene le spese funerarie e quelli di custodia
della bicicletta del de cuius, va osservato che, a seguito
della non contestazione da parte della convenuta Sai s.p.a.,
l'Istruttore ha già concesso ordinanza di pagamento
ex art. 186 bis c.p.c. per l'ammontare di Lire 4.918.800,
oltre interessi dalla data dei singoli esborsi sino al soddisfo;
perciò, risultando incontroverso che parte convenuta
abbia adempiuto (come da quietanza in atti), tale posta
non viene computata nel quantum risarcitorio complessivo,
in ragione dell'avvenuto soddisfacimento (la sentenza, in
ogni caso, assorbe l'ordinanza di che trattasi, resa alla
udienza del 4.11.1999).
Per quanto attiene, invece, la bicicletta, si osserva come
l'attore non abbia assolto l'onere posto a suo carico dall'art.
2697 c.c..
Invero, non può ragionevolmente dubitarsi che il
veicolo sia rimasto danneggiato in occasione del sinistro.
Tuttavia non è dato sapere se il mezzo sia stato
distrutto o riparato, e con che spesa.
E' appena il caso di notare, poi, come il preventivo di
riparazione redatto da un terzo può essere sì
valutato ex art. 2729 c.c., ma solo se unito ad altri elementi
di prova; in quest'ultimo caso infatti può costituire
un riscontro di elementi forniti aliunde, che corrobora
quelli e ne è corroborato. Da solo ed in sé
considerato, esso non è che una valutazione: ovvero
la comparazione di uno stato di fatto con una operazione
economica. Come valutazione, un simile documento (ripetesi,
ove costituisca l'unico elemento addotto a sostegno delle
richieste avanzate) è assolutamente inidoneo a stimare
un danno purchessia. Sarebbe infatti illogico ed iniquo
consentire documentalmente l'acquisizione di valutazioni
di terzi, precluse ove tali terzi dovessero deporre come
testi.
L'attore non potrebbe neppure invocare l'applicazione dell'art.
1226 c.c., norma di chiusura dettata a salvaguardia delle
ipotesi di oggettiva impossibilità di prova, non
di mera difficoltà, specie se dovuta ad inerzia della
parte. In simili casi, l'applicazione dell'art. 1226 c.c.
si tradurrebbe in un indebito sbilanciamento della parità
delle parti. Pertanto, la domanda sul punto va rigettata.
Interessi da ritardato pagamento: le somme finora liquidate
sono espresse in valori attuali, e, se da un lato costituiscono
l'adeguato equivalente pecuniario della compromissione di
beni giuridicamente protetti, tuttavia non comprendono l'ulteriore
e diverso danno rappresentato dalla mancata disponibilità
della somma dovuta, provocata dal ritardo con cui viene
liquidato al creditore danneggiato l'equivalente in denaro
del bene leso. Nei debiti di valore, come in quelli di risarcimento
da fatto illecito, vanno pertanto corrisposti interessi
per il cui calcolo non si deve utilizzare necessariamente
il tasso legale, ma un valore tale da rimpiazzare il mancato
godimento delle utilità che avrebbe potuto dare il
bene perduto.
Orbene, tale voce di danno deve essere provata dal creditore
e, solo in caso negativo, il giudice, nel liquidare il risarcimento
ad essa relativo, può fare riferimento, quale criterio
presuntivo ed equitativo, ad un tasso di interesse che,
in mancanza di contrarie indicazioni suggerite dal caso
concreto, può essere fissato nell'interesse legale
medio del periodo intercorrente tra la data del fatto e
quella attuale della liquidazione.
Tale “interesse” va, tuttavia, applicato non
già alla somma rivalutata in un'unica soluzione alla
data della sentenza, bensì, conformemente al noto
principio enunciato dalle S.U. della Suprema Corte con sentenza
17/2/1995 n° 1712, sulla “somma capitale”
rivalutata di anno in anno.
Procedendo alla stregua dei criteri appena enunciati, a
partire dal danno complessivamente subito e su indicato,
si determina il “danno iniziale”, inteso come
danno finale devalutato alla data del sinistro; questo viene
successivamente rivalutato fino alla data della sentenza,
al contempo calcolando gli interessi ponderati via via maturati.
Si arriva in tal modo a determinare l'importo degli interessi
da corrispondere per la mancata completa disponibilità
del risarcimento dovuto.
Conseguentemente, la somma (residua, ad esclusione cioè
di quella già calcolata con l'ordinanza ex art. 186
bis c.p.c.) da liquidare in favore di Giuseppe Bonaparte,
comprensiva di capitale (danno morale e patrimoniale) ed
interessi da ritardato pagamento, è pari a Lire 280.700.000
(di cui lire 245.000.000 per capitale, e lire 35.700.000
per interessi); su tale somma vanno poi conteggiati gli
interessi come per legge dalla data della presente decisione
sino al soddisfo.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P. Q. M.
Il Tribunale di Palermo, Terza Sezione Civile, in persona
del G. I. in funzione di Giudice Unico, ogni contraria istanza,
eccezione e deduzione respinta, definitivamente pronunciando
nella contumacia di Armanno Giuseppe, così provvede:
In accoglimento delle domande proposte da Bonaparte Giuseppe
con atto di citazione dei 25/27 febbraio 1999, condanna
i convenuti Armanno Giuseppe e SAI Società Assicuratrice
Industriale s.p.a., in solido tra loro, al pagamento, in
favore dell'attore, della somma di Lire 280.700.000 (rimanendo
escluso quanto già liquidato con l'ordinanza ex art.
186bis c.p.c., da intendersi confermata), oltre interessi
come per legge dalla data della decisione sino al soddisfo.
Condanna i predetti convenuti in solido alla rifusione a
favore dell'attore delle spese del presente giudizio, che
liquida in complessive Lire 11.379.500.=, di cui lire 379.500
per esborsi, lire 3.000.000 per diritti, lire 7.000.000
per onorari e lire 1.000.000 per spese generali, oltre I.V.A.
e C.P.A. come per legge.
In relazione al disposto degli artt. 59 lett. d) e 60 T.
U. sull'imposta di registro, si indica in Armanno Giuseppe
(in solido con SAI s.p.a.) la parte obbligata al risarcimento
del danno derivante da un fatto costituente reato, nei cui
confronti deve essere recuperata l'imposta prenotata a debito.
La sentenza è provvisoriamente esecutiva tra le parti
ai sensi dell'art. 282 c.p.c., come modificato dalla legge
n. 534/95.
La redazione
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