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Danni da morte dei nonni: punto di riferimento esistenziale

Cassazione , sez. III civile, sentenza 15.07.2005 n° 15019

Suprema Corte di Cassazione


Sezione terza civile


Sentenza 16 febbraio- 15 luglio 2005, n. 15019


(Presidente Duva – relatore Mazza)


Svolgimento del processo


A seguito di incidente stradale, cagionato da L. Maria, alla guida di una autovettura di proprietà di M. Cesare ed assicurata presso la soc. La Fondiaria, decedeva G. Alvaro e i suoi nipoti , discendenti in secondo grado, tali B. Silvia, B. Alberta, B. Francesco, G. Alessandro, G. Davide, P. Cinzia, B. Andrea e P. Nello adivano il Giudice di pace di Lucca per ottenere la condanna del M., della L. e della soc. La Fondiaria al risarcimento dei danni da loro rispettivamente subiti per la morte del nonno.


Il Giudice di pace, con sentenza 20 febbraio 1997, accoglieva la domanda, che era, invece, rigettata dal Tribunale di Lucca, con sentenza 4 maggio 2001, pronunciata su appello della soc. La Fondiaria. Il Tribunale riteneva infatti che non fosse stata data prova di grave turbamento degli appellati in conseguenza dell’evento dannoso.


Avverso tale sentenza B. Silvia e gli altri nipoti del G. propongono ricorso per cassazione con due mezzi di gravame. Gli intimati non svolgono difese.


Motivi della decisione


Il Tribunale ha osservato che il Giudice di pace ha erroneamente fondato la sua decisione unicamente sulle dichiarazioni rese dalle parti in risposta a libero interrogatorio e, pertanto, non su prove in senso tecnico, ma su elementi che non costituiscono neppure indizi sui quali fondare la prova per presunzioni; che l’unico teste escusso ha riferito di normali rapporti tra nonno e nipoti, cosicché non è dimostrato il grave turbamento degli allora appellati, per difetto di prova, e non potendosi trarre argomento di decisione dal solo rapporto di parentela. Ha ancora rilevato, contro l’accoglimento della domanda, doversi tener conto dell’età della vittima e della mancanza di convivenza tra questa e i nipoti.


Con il primo mezzo di gravame i ricorrenti lamentano il vizio di omessa o insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, osservano che il giudice a quo ha omesso di valutare pienamente la deposizione resa dal teste G., dalla quale risultava la vicinanza psicologica e gli stretti rapporti tra nonno e nipoti. Riportano nel ricorso tale deposizione con la quale la G. ebbe a riferire di rapporti improntati a vicendevole affetto, e di scambio di frequenti visite e di regali, precisando altresì che il defunto G. era solito andare a caccia con i nipoti. Censurano altresì l’assunto del Tribunale, secondo cui il giudice di prima istanza avrebbe fondato la sua decisione unicamente sulle risultanze del libero interrogatorio degli attori e non su prove in senso tecnico.


Affermano che tale motivazione è palesemente errata, giacché consolidata giurisprudenza attribuisce valore probatorio alle dichiarazioni così raccolte nel processo, specie quando questo si svolge avanti al giudice di pace. Con il secondo mezzo di gravame, i ricorrenti lamentano violazione di legge per erronea e restrittiva applicazione della normativa in tema di risarcimento del danno da illecito aquiliano, avendo il giudice a quo tenuto conto soltanto della mancanza del requisito della convivenza.


Le due censura, da esaminare congiuntamente perché strettamente connesse, meritano accoglimento.


Come affermato da Cassazione, terza, 16716/03, la morte di un congiunto, conseguente a fatto illecito, configura per i superstiti del nucleo familiare un danno non patrimoniale diretto ed ingiusto, costituito dalla lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili, perché la perdita di affetti e di solidarietà inerenti alla famiglia come società naturale. Risulta quindi evidente, da siffatta impostazione, che il danno in questione, incidendo esclusivamente sulla psicologia, sugli affetti e sul legame parentale esistente tra la vittima dell’atto illecito e i superstiti, non è riconoscibile se non attraverso elementi indiziari e presuntivi, che, opportunamente valutati, con il ricorso ad un criterio di normalità, possano determinare il convincimento del giudice. Cosicché appare illogica, perché contraria a principi di ordinaria razionalità, la pretesa, avanzata dal giudice a quo, circa la necessità di “una prova in senso tecnico” a dimostrazione del dolore dei superstiti, che, essendo sostanzialmente un sentimento, e, comunque, un danno di portata spirituale, può essere rilevato soltanto in maniera indiretta. L’assunto del Tribunale, secondo cui le dichiarazioni rese dalle parti in risposta al libero interrogatorio non costituiscono neanche indizi su cui fondare la prova per presunzioni, costituisce erronea interpretazione dell’articolo 117 Cpc. Infatti, secondo Cassazione, terza, 15849/01, “le dichiarazioni rese dalla parte nell’interrogatorio libero di cui all’articolo 117 Cpc, pur non essendo un mezzo di prova, possono essere fonte, anche unica, del convincimento del giudice di merito, al quale è riservata la valutazione, non censurabile in sede di legittimità, se congruamente e ragionevolmente motivata, della loro concludenza e attendibilità (conformi, Cassazione, seconda, 7002/00; Cassazione, prima. 10497/98; Cassazione, seconda, 7644/94). Così il giudice a quo avrebbe dovuto esaminare tali dichiarazioni, sulle quali era fondata in tutto o in parte la decisione di primo grado, e dare conto delle sue valutazioni su di esse, anziché definirle, sbrigativamente ed erroneamente, come irrilevanti. La sentenza impugnata presenta, pertanto, sotto tale profilo, anche il vizio di omessa motivazione. Ma, oltre agli elementi desumibili dall’esito dell’interrogatorio libero, era a disposizione del Tribunale anche la deposizione della Gisuti, riportata nel ricorso, come in precedenza precisato.


Detta deposizione è stata ritenuta in conferente dal giudice del gravame con l’assunto secondo cui il teste “ha riferito di normali rapporti tra nonni e nipoti”.


Tale affermazione contrasta con criteri di ragionevolezza e di comune esperienza. Proprio la sussistenza di normali rapporti, specie in assenza di coabitazione, lascia intendere come sia rimasto intatto, e come si sia forse rafforzato nel tempo, il legame affettivo e parentale tra prossimi congiunti. Legame che, in presenza di tali rapporti, è costruito non soltanto sul ricordo del passato, ma anche sulla base affettiva nutrita dalla frequentazione in atto e dalla consapevolezza della presenza in vita di una persona cara, che è anche un punto di riferimento esistenziale. Sostenere il contrario significa pretendere, contro normale ragionevolezza, ed anche in presenza di un vincolo più stretto, come tra genitori e figli, che il dolore per la morte del congiunto debba essere dimostrato dalla presenza di rapporti di natura ed intensità eccezionali e, come tali, difformi dal vissuto comune. Né l’assenza di coabitazione può essere considerata elemento decisivo di valutazione sotto il profilo che interessa la presente causa, quando si consideri che tale assenza sia imputabile a circostanze di vita che non escludono il permanere dei vincoli affettivi e la vicinanza psicologica con il congiunto deceduto. Anche sotto tale profilo la motivazione appare illogica ed insufficiente. E’ pertanto necessario un nuovo e completo esame della fattispecie con valutazione che si attenga ai principi dettati dalla interpretazione delle norme ad essa applicabili.


P.Q.M.


La Corte, accoglie il ricorso; cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al Tribunale di Pisa.

La redazione di megghy.com

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