Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza 18449 del
17 maggio 2005, ravvisando invece nel suddetto comportamento
il reato di ingiuria.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Sentenza 29 aprile-17 maggio 2005, n. 18449
(Presidente Gianvittore – relatore Gironi)
Motivi della decisione
La sentenza indicata in epigrafe ha dichiarato S.C. colpevole
della contravvenzione di cui all’articolo 660 Cp per
avere il 7 novembre 2001, o sino a tale data, recato molestia
a L.D. inviandole ripetuti Sms di contenuto ingiurioso ed
ha condannato la stessa, previa concessione di attenuanti
generiche, alla pena di 500 euro di ammenda.
Ricorre il difensore, deducendo:
- violazione di legge e vizio di motivazione, non valendo
ad integrare il reato in questione, posto a tutela della tranquillità
privata e non dell’onore personale, l’invio in
rapida sequenza di due messaggi per difetto dell’elemento
della petulanza, mentre di eventuali messaggi successivi,
rilevabili solo dai tabulati (risultanti, peraltro, inviati
in ore pomeridiane anziché notturne, come riferito
dall’offesa) e non menzionati nella informativa di polizia,
non potrebbe, comunque, tenersi conto in quanto successivi
alla data del 7 novembre 2001, indicata nel capo d’imputazione
come termine finale della condotta contestata;
- inammissibilità della costituzione di parte civile
perché avvenuta successivamente al compimento delle
formalità di cui all’articolo 484 Cpp ed alla
dichiarazione di apertura del dibattimento;
- violazione di legge quanto alla determinazione della pena
base in euro 750, superiore al massimo edittale pari a euro
516,00;
- carenza assoluta di motivazione in ordine alla sussistenza
del danno morale, alla sua entità ed alla quantificazione
della somma liquidata a titolo di risarcimento, peraltro riferiti
ad una richiesta fondata sulla natura ingiuriosa dei messaggi
pur procedendosi unicamente per il reato di molesti e non
per quello di ingiuria.
Il ricorso è fondato in relazione al primo, assorbente
motivo, dovendosi nella fattispecie ritenere integrato il
reato di ingiuria (per il quale non risulta proposta querela)
e non la contestata contravvenzione di molestia: la condotta
illecita che il giudicante ha considerato sorretta da valida
prova risulta, invero, essersi esaurita nell’invio,
in rapida sequenza, di due messaggi (sms) di contenuto ingiurioso
che, anche per le modalità della forma di comunicazione
prescelta (realizzata in forma scritta e non vocale) e per
l’ora diurna in cui l’imputata agì, non
appaiono idonei a ledere il bene giuridico della privata tranquillità
ma soltanto quello dell’onore personale. Va, inoltre,
considerato che la previsione incriminatrice, formulata in
epoca in cui l’impiego del telefono era concepibile
soltanto mediante comunicazioni vocali, non può ritenersi
estensibile anche all’ipotesi in cui detto mezzo (nella
specie telefono cellulare) sia utilizzato esclusivamente per
l’invio dei cosiddetti “sms”, pienamente
assimilabili agli scritti contemplati dall’articolo
594 piuttosto che alle comunicazioni telefoniche di cui all’articolo
660 Cp.
Deve, infine, rilevarsi anche a prescindere dalle suesposte
considerazioni, come la sentenza abbia essenzialmente incentrato
le proprie argomentazioni sulla sola condotta del giorno 7
novembre 2001, che segna il termine finale della contestazione,
mai modificata od integrata in corso di giudizio, senza minimamente
precisare se gli ulteriori messaggi registrati sui tabulati
si riferiscano ad epoca antecedente od, invece, come sostenuto
dal ricorrente, esclusivamente a date posteriori e, quindi,
estranee all’ambito dell’imputazione contestata
e ritenuta in sentenza, con conseguente difetto anche del
requisito della petulanza, per sua natura integrato dalla
protratta reiterazione e serialità della condotta illecita,
non certo ravvisabile nell’invio di due soli messaggi,
da valutarsi alla stregua di una comunicazione sostanzialmente
unitaria stante il brevissimo intervallo che li divise.
P.Q.M.
Qualificato il fatto come ingiuria, annulla senza rinvio
la sentenza impugnata perché l’azione penale
non poteva essere esercitata per difetto di querela.
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