Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 297 del 10 gennaio 2005....
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
Sez. I CIVILE
Sentenza 10 gennaio 2005, n. 297
Svolgimento del processo
Con ricorso, depositato il 16.02.02, diretto alla Corte d'appello
di Perugia, L. Antonietta chiedeva la condanna del Ministero
della Giustizia all'equa riparazione, di cui alla legge 24.03.2001,
n. 89, dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti
dalla eccessiva durata del processo civile, instaurato davanti
al Pretore di Roma, con atto di citazione notificato il 10.04.95,
con il quale la L. aveva opposto il decreto, con cui le era
stato ingiunto il pagamento della somma di L. 1.805.085.
Tale giudizio si era concluso con sentenza del 28.04.01. Con
decreto in data 11.11.2002 il giudice adito respingeva il
ricorso, osservando che il giudizio - detratti due anni per
rinvii chiesti dalla ricorrente, che aveva accettato, nel
chiedere i rinvii, che questi fossero anche di non brevissima
durata - si era protratto per anni tre e mesi sei;
che poteva ritenersi ragionevole la durata di tre anni di
un giudizio di primo grado;
che in relazione al non rilevante importo della somma opposta
ed alla condotta processuale della ricorrente non potevasi
ritenere che la stessa, in conseguenza del limitato periodo
di maggior durata del processo, abbia potuto subire un danno
non patrimoniale, quale danno alla salute psicofisica per
lo stress e l'ansia che l'esistenza di una causa possono provocare;
che nessun altro pregiudizio era stato provato.
Avverso detto provvedimento L. Antonietta ha proposto ricorso
per Cassazione sulla base di due motivi. Il Ministero della
Giustizia ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e mancata
applicazione dell'art. 2 legge 24/3/01 n. 89 in relazione
all'art. 360 n. 3 c.p.c.
Deduce la ricorrente che il periodo di durata eccedente quello
di tre anni, da ritenersi ragionevole, sarebbe di 1 anno,
4 mesi e 20 giorni e, quindi, superiore a quello ritenuto
dal giudice a quo.
Avrebbe errato il giudice a quo nel non ritenere provato il
danno, che, invece, essendo in re ipsa, avrebbe dovuto ritenersi
sussistente, essendo stata provata la eccessiva durata del
processo.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e
mancata applicazione dell'art. 2 L 24.3.01 n. 89 in relazione
all'art. 360 c.p.c.
Deduce la ricorrente che la durata del processo avrebbe dovuto
essere valutata prendendo in considerazione anche il periodo
riguardante il procedimento di correzione di errore pendente
dal 4.1.02 e tutt'ora pendente.
Il danno, poi, tenendo conto anche di questo ulteriore periodo,
avrebbe dovuto essere liquidato in via equitativa.
Il ricorso è fondato.
Con riferimento al primo motivo il collegio osserva:
con la sentenza n. 1338 del 2004 le sezioni unite di questa
corte hanno affermato il principio secondo cui, in tema di
equa riparazione ai sensi dell'art. 2 della legge 24 marzo
2001 n. 89, il danno non patrimoniale è conseguenza
normale, ancorchè non automatica e necessaria, della
violazione del diritto alla ragionevole durata del processo,
di cui alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali, sicchè,
pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno
non patrimoniale "in re ipsa" - ossia di un danno
automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento
della violazione -, il giudice, una volta accertata e determinata
l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole
del processo secondo le norme della citata legge n. 89 del
2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale
ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze
particolari che facciano positivamente escludere che tale
danno sia stato subito dal ricorrente.
Con la successiva sentenza n. 1339 del 2004 le sezioni unite
di questa corte hanno processo non può essere esclusa
sul rilievo della esiguità della posta in gioco nel
processo presupposto, atteso che l'entità della posta
in gioco nel processo, ove si è verificato il mancato
rispetto del termine ragionevole, non è suscettibile
di impedire il riconoscimento del danno non patrimoniale,
dato che l'ansia ed il patema d'animo conseguenti alla pendenza
del processo si verificano normalmente anche nei giudizi in
cui sia esigua la posta in gioco, onde tale aspetto può
avere un effetto riduttivo dell'entità del risarcimento,
ma non totalmente escludente lo stesso.
Il giudice a quo ha escluso la esistenza del danno non patrimoniale,
dando rilievo a due circostanze: 1) il limitato periodo di
maggior durata del processo rispetto a quella da ritenersi
nel caso di specie ragionevole; 2) il non rilevante importo
della somma opposta, circostanze entrambe che - alla luce
dell'orientamento giurisprudenziale surriportato, che il collegio
condivide, non ravvisando serie ragioni per discostarsene
- detto giudice avrebbe potuto valorizzare al solo fine di
determinare l'entità del risarcimento, ma non per escludere
del tutto resistenza del diritto all'indennizzo per la non
ragionevole durata del processo. Con riferimento al secondo
motivo il collegio osserva:
il giudice a quo ha determinato la durata del processo, omettendo
di considerare il periodo di durata del procedimento di correzione
di errore materiale di cui agli artt. 287 e segg. c.p.c.,
osservando che della durata di tale procedimento non potevasi
tener conto non avendo questo natura giurisdizionale.
Tale tesi non può essere condivisa.
L'art. 2, comma 2, della legge n. 89 del 2001 dispone che
nell'accertare la violazione il giudice considera la complessità
del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle
parti e del giudice del procedimento, nonchè quella
di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque
contribuire alla sua definizione.
Da tale norma si evince chiaramente che quel che rileva è
l'influenza di una determinata attività sulla durata
del procedimento, non la sua natura, che potrebbe essere,
quindi, anche di natura diversa da quella giurisdizionale
e addirittura posta in essere da un soggetto diverso dal giudice.
Non si può fondatamente negare che il procedimento
ed il relativo provvedimento di correzione di errore materiale
rilevino ai fini della definizione del procedimento giurisdizionale,
atteso che detto provvedimento ha pur sempre, nonostante la
sua natura sostanzialmente amministrativa, la funzione di
rendere aderente la "formula" della sentenza al
contenuto effettivo della decisione.
A ciò si aggiunga che, secondo l'orientamento giurisprudenziale
di questa corte (cfr. per tutte cass. n. 3604 del 1992), il
procedimento di correzione della sentenza di cui agli artt.
287 e segg. cod. proc. civ. non costituisce un nuovo giudizio
rispetto a quello in cui la sentenza è stata emessa,
ma un mero incidente dello stesso giudizio diretto ad identificare,
come già detto, con la sua corretta espressione grafica
l'effettiva volontà del giudice come già risulta
espressa nella sentenza.
Pertanto il giudice, ai fini dell'accertamento della violazione
del termine di ragionevole durata del processo, è tenuto
a considerare anche il periodo di durata del procedimento
per la correzione dell'errore materiale della sentenza.
Per quanto precede il ricorso deve essere accolto e il provvedimento
impugnato deve essere cassato con rinvio alla Corte d'appello
di Perugia in diversa composizione, che provvedere anche alla
liquidazione delle spese del giudizio di legittimità
e che nel decidere si uniformerà ai principi di diritto
sopra enunciati.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa e rinvia, anche per le
spese, alla Corte d'appello di Perugia in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 23 novembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2005.
La redazione di megghy.com
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