Suprema Corte di Cassazione
Sezione terza civile
Sentenza 1 aprile- 14 giugno 2005, n. 12747
(Presidente Fiduccia – relatore Talevi)
Svolgimento del processo
Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo
è esposto come segue.
«Il tribunale di Roma – decidendo con sentenza
in data 15 novembre 1994 la controversia promossa da Gaetano
P. nei confronti del chirurgo Aldo S. – condannava il
convenuto al risarcimento dei danni in favore dell’attore,che
liquidava in complessive lire 17.000.000, oltre interessi
dal 23 dicembre 1978 al soddisfo. Il tribunale, sulla base
delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio
espletata nel corso del giudizio:
affermava, in primo luogo, che l’esecuzione da parte
dello S. dei due interventi chirurgici a cui l’attore
P. era stato sottoposto nel dicembre 1978 (lifting e blefaroplastica)
era stata lacunosa;
osservava che la condotta negligente del sanitario aveva comportato
un deciso peggioramento delle condizioni del paziente,sia
sotto il profilo estetico sia, soprattutto,dal punto di vista
funzionale, attesa l’insorgenza ex novo di difficoltà
respiratorie;
negava che la dichiarazione liberatoria rilasciata dal P.
in data 20 dicembre 1978 in relazione ad eventuali complicanze,
potesse assumere rilevanza per escludere qualsiasi responsabilità
del sanitario dott. S. in ordine ai danni cagionati al P.:
sia perché il convenuto non aveva provato di aver perfettamente
informato il paziente in merito agli effettivi rischi di complicanze
connesse all’esecuzione dell’intervento,sia perchè
il consenso all’esecuzione di un intervento chirurgico
nonostante i rischi ad essi connessi non potrebbe comunque
interpretarsi come preventiva acquiescenza ad errori e negligenze
eventualmente commessi dal chirurgo o dei suoi collaboratori;
affermava che l’intervento chirurgico richiesto allo
S. non poteva considerarsi di “difficile esecuzione”,
cosicché, avendo il P. provato il peggioramento delle
proprie condizioni successivamente all’esecuzione dell’intervento,
era evidentemente onere del convenuto provare di aver correttamente
svolto l’attività chirurgico-terapeutica richiesta
dal caso;
affermava che il convenuto non aveva dato prova di tutto ciò,
essendo al contrario emerso dall’indagine peritale che
gli interventi non erano stati correttamente eseguiti, sicchè
la condotta dello S. non poteva ritenersi immune da colpa;
determinava nella misura complessiva del 10% l’invalidità
permanente, di cui il 4-4,5% riferibile al danno funzionale
respiratorio, qualificato come pressoché irreparabile;
stimava in complessive lire 15.000.000 il risarcimento spettante
al P. per il danno biologico subito, inteso come lesione all’integrità
psicofisica, ed in complessive lire 2.000.000 il danno morale,
con gli interessi legali dalla data del fatto illecito.
Avverso tale sentenza, depositata in data 14 dicembre 1994,
ha proposto appello lo S., con atto di citazione notificato
in data 27 gennaio 1996.
Resiste in giudizio il P., che ha chiesto il rigetto del gravame
perché inammissibile e comunque infondato. Respinta
l’istanza di sospensione dell’esecuzione provvisoria
della sentenza, precisate le conclusioni definitive, la causa
è stata posta in deliberazione all’udienza collegiale
del giorno 27 giugno 2000».
La Corte d’appello di Roma, con sentenza 27 settembre-12
dicembre 2000, definitivamente pronunciando, provvedeva come
segue: «…Rigetta l’appello proposto da S.
Aldo avverso la sentenza del tribunale di Roma in data 14
dicembre 1994, che conferma integralmente:
condanna l’appellante S. Aldo al pagamento delle spese
di lite in favore di P. Gaetano, che si liquidano in complessive
lire 5.850.000 (di cui lire 250.000 per spese, lire 1.600.000
per diritti e lire 4.000.000 per onorari) oltre Iva e Cpa
e rimborso spese generali».
Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione
Aldo S.
Ha resistito con controricorso Gaetano P..
Motivi della decisione
Con l’unico articolato motivo il ricorrente Aldo S.
denuncia “violazione e falsa applicazione degli articoli
1176, 2236 e 1218 Cc. Difetto di motivazione. Mancanza del
nesso di causalità” esponendo doglianze che possono
essere sintetizzate come segue. La sentenza impugnata non
ha tenuto conto di alcuni elementi che sono invece determinanti
e dai quali emerge che quanto lamentato dall’attore
non è stato causato da un difetto di diligenza dell’odierno
ricorrente e che in ogni caso, è applicabile l’articolo
2236 Cc e non l’articolo 1176 Cc. L’intervento
risale al lontano 1978, la causa intentata dal P. è
iniziata il 1982 e la Ctu è iniziata il 19 febbraio
1988 (dopo che per ben tre anni il periziando non si era presentato
al consulente d’ufficio). Se si tiene conto di tali
elementi, non contestati e provati in atti, ne derivano alcune
certezze incontrovertibili:
1) nell’anno 1978 l’intervento era senz’altro
“straordinario perché non adeguatamente studiato
dalla scienza e sperimentato nella pratica” e perché
un intervento possa definirsi tale “è sufficiente
che lo stesso implichi un impegno intellettuale superiore
a quello medio”. L’odierno ricorrente, quindi,
“… aveva l’unico onere di provare la eccezionalità
dell’intervento che, nel caso di specie, è in
re ipsa, proprio per la delicatezza ed il periodo in cui è
stato eseguito…” (v. all’inizio di pag.
5 del ricorso).
2) In risposta al secondo quesito “stato attuale, tenendo
presente anche dell’incidenza sulla persona del tempo
trascorso” il Ctu risponde: “gli interventi sono
stati eseguiti nel dicembre 1978, quindi è trascorso
un lasso di tempo di oltre nove anni. Non si può definire
se gli interventi abbiano dato un risultato completo e ottimale
al paziente poiché l’invecchiamento generale
del soggetto comunque avrebbe portato ai risultati attuali.
Solitamente, infatti, una blefaroplastica ed un lifting facciale
hanno una tenuta nel tempo che varia a seconda degli individui
da cinque a otto anni” (si veda Ctu pag 4 punto 2).
E’ naturale chiedersi come mai il P. abbia atteso circa
quattro anni per sottoporsi alla perizia.
3) Questa parte della perizia, non è stata in alcun
modo considerata dai giudici.
4) I motivi precedenti danno modo di provare che anche ove
si volesse ritenere applicabile al caso di specie l’articolo
1176 anziché l’articolo 2236 Cc., si dovrebbe
comunque escludere qualunque responsabilità in capo
al dott. S.. Non è stata dimostrata alcun tipo di negligenza,
lieve o grave e, nel contempo, difetta totalmente la prova
del nesso di causalità.
Il motivo non può essere accolto in quanto la decisione
impugnata è fondata su una motivazione sufficiente,logica,
non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione.
In particolare si osserva quanto segue:
a) la doglianza secondo cui nell’anno 1978 l’intervento
era senz’altro “straordinario perché non
adeguatamente studiato dalla scienza e sperimentato nella
pratica” e l’eccezionalità dell’intervento
nel caso di specie è in re ipsa proprio per la delicatezza
ed il periodo in cui è stato eseguito (v.sopra), è
inammissibile (in quanto viene espressa in termini sostanzialmente
apodittici) prima ancora che priva di pregio (dato che la
motivazione della corte è comunque immune da vizi);
b) quanto alle doglianze esposte in relazione alla “…
tenuta nel tempo…” di “… una blefaroplastica
ed un lifting facciale…” è evidente, prima
ancora della loro mancanza di pregio (derivante dall’inidoneità
delle stesse ad inficiare la motivazione della Corte), la
loro inammissibilità in quanto nell’impugnata
decisione vengono confutate, tra l’altro, proprio le
tesi in questione (v. in particolare a pag. 9 ove si rileva
che gli esiti negativi riscontrati dal consulente tecnico
non si riferiscono affatto a profili estetici relativi al
lifting (e dal contesto della sentenza si evince che il rilievo
della Corte si riferisce in realtà anche alla blefaroplastica)
ma alla presenza di disformismi delle cicatrici e soprattutto
alla presenza di disturbi funzionali irreversibili insussistenti
in precedenza (difficoltà respiratorie) ed era quindi
onere dello S. criticare dette confutazioni, mentre è
da ritenersi inammissibile la ripetizione (in sostanza) di
rilievi già esaminati dalla Corte di merito.
Il ricorso va dunque respinto.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in
dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente
a rifondere alla parte controricorrente le spese del giudizio
di cassazione liquidate in euro 1.500,00 per onorario e euro
100,00 per spese vivie ed oltre spese generali ed accessori
come per legge.
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