Corte costituzionale
Sentenza 22 luglio 2005, n. 299
[...] nei giudizi di legittimità costituzionale degli
artt. 303, comma 2, e 304, comma 6, del codice di procedura
penale, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali,
dal Tribunale di Bari con ordinanza in data 11 luglio 2003
e dal Tribunale di Torino con ordinanza in data 11 giugno
2003, rispettivamente iscritte ai numeri 816 e 841 del registro
ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica numeri 42 e 43, prima serie speciale, dell'anno
2003.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 maggio 2005 il Giudice
relatore Guido Neppi Modona.
RITENUTO IN FATTO
1. - Con ordinanza in data 11 luglio 2003 il Tribunale di
Bari, chiamato a pronunciarsi sulla istanza di un imputato
volta ad ottenere la scarcerazione per decorrenza del termine
massimo di custodia cautelare ai sensi del combinato disposto
degli artt. 303, comma 1, lettera b), numero 2, e 304, comma
6, del codice di procedura penale, ha sollevato, in riferimento
agli artt. 13 e 24 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell'art. 304, comma 6, del codice di procedura
penale, nella parte in cui, facendo riferimento all'art. 303,
comma 2, cod. proc. pen. ai fini del calcolo della durata
massima dei termini di fase di custodia cautelare, non consente
di computare i periodi di custodia cautelare sofferti in diversa
fase processuale.
Il Tribunale premette che il periodo compreso tra il 18 febbraio
2003 (data del primo rinvio a giudizio) e il 3 aprile 2003
(data della pronuncia della nullità della prima richiesta
di rinvio a giudizio) non potrebbe essere considerato ai fini
della asserita decorrenza del termine biennale previsto per
la fase delle indagini preliminari alla stregua degli argomenti
esposti dalla Corte di cassazione a sezioni unite nella sentenza
29 febbraio 2000, n. 4; argomenti che il Tribunale dichiara
di condividere e di avere già recepito in altri processi.
L'art. 304, comma 6, cod. proc. pen. stabilisce infatti che
la durata della custodia cautelare non può comunque
superare il doppio dei termini previsti dall'art. 303, commi
1, 2 e 3, mentre l'art. 303, comma 2, attiene in modo specifico
alla decorrenza ex novo dei termini di fase nell'ipotesi di
regressione del processo, e anche in questo caso il termine
di fase non può superare il doppio della sua durata.
Sicché - rileva il rimettente - sostenere la necessità
del computo indiscriminato di tutte le fasi intermedie farebbe
perdere al limite stabilito dall'art. 304, comma 6, il carattere
endofasico che normativamente lo caratterizza e creerebbe
un nuovo termine finale plurifasico, estraneo alle previsioni
degli artt. 303 e 304, comma 6, cod. proc. pen.
Nell'estendere la durata della misura cautelare anche a seguito
di eventi patologici non solo rilevati d'ufficio, ma eccepiti
(come nella specie) dall'imputato a tutela dei propri diritti,
il quadro normativo così delineato si porrebbe tuttavia
in contrasto con gli artt. 13 e 24 Cost., in quanto l'imputato
potrebbe essere indotto a rinunciare alle eccezioni difensive
allo scopo di evitare la dilatazione della durata della custodia
cautelare, con conseguente compressione del diritto di difesa,
mentre, avvalendosi della eccezione, sarebbe costretto a subire
lo stato di privazione della libertà, comunque incidente
su una piena esplicazione del diritto di difesa.
Nel caso di specie, ricorda il rimettente, il provvedimento
del 3 aprile 2003 aveva avuto ad oggetto la declaratoria di
nullità della prima richiesta di rinvio a giudizio,
a causa della violazione di una norma attinente al diritto
di difesa che, se puntualmente osservata, avrebbe determinato
la liberazione dell'imputato «per decorrenza del termine
di fase già "ripartito", ex art. 303, comma
2, per effetto della sentenza [di incompetenza] del Giudice
dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo».
2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale
dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile
per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, infatti,
l'ordinanza di rimessione, nella quale viene solamente richiamato
il termine biennale previsto per la fase delle indagini preliminari,
non consentirebbe di comprendere quale sia il fatto oggetto
del giudizio a quo e, conseguentemente, di verificare la rilevanza
della questione. Inoltre la questione sarebbe uguale ad altre
in relazione alle quali questa Corte ha affermato che l'art.
304, comma 6, cod. proc. pen. costituisce una regola di chiusura
del sistema della custodia cautelare e fissa un termine finale,
«sicché il superamento di un termine di custodia
pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in
considerazione determina la perdita di efficacia della custodia
anche se quei termini hanno iniziato a decorrere nuovamente
a seguito della regressione» (ordinanza n. 243 del 2003).
3. - Con ordinanza in data 11 giugno 2003 il Tribunale di
Torino, chiamato a pronunciarsi sull'appello proposto dalla
difesa di un imputato avverso il provvedimento con il quale
la Corte d'appello della medesima città aveva respinto
l'istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini previsti
dagli artt. 303, comma 2, e 304, comma 6, cod. proc. pen.,
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., questione
di legittimità costituzionale dell'art. 303, comma
2, cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede, nel
caso in cui il procedimento regredisca a una fase o a un grado
di giudizio diversi, che "dalla data del provvedimento
che dispone il regresso [...] decorrono di nuovo i termini
previsti dal comma 1, relativamente a ciascuno stato e grado
del procedimento", invece che prevedere, così
come disposto dall'art. 304, comma 6, cod. proc. pen., che
detti termini non cominciano nuovamente a decorrere, in quanto
"la durata (complessiva) della custodia cautelare non
può comunque superare il doppio dei termini previsti
dall'art. 303, comma 1"».
Il rimettente riferisce che l'imputato, in custodia cautelare
dal 4 maggio 2001 per il reato di cui agli artt. 110 cod.
pen. e 73, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (traffico
di stupefacenti in concorso), era stato condannato, con sentenza
del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Torino
del 2 maggio 2002, alla pena di sei anni, otto mesi e venti
giorni di reclusione e quarantamila euro di multa. Successivamente
la Corte d'appello di Torino, con sentenza del 27 novembre
2002, aveva dichiarato la nullità del provvedimento
con cui era stato disposto il giudizio di primo grado e rinviato
gli atti al giudice delle indagini preliminari. A seguito
di ricorso dell'imputato, la Corte di cassazione, con sentenza
del 15 maggio 2003, aveva rimesso gli atti al pubblico ministero.
Il 28 aprile 2003 l'imputato aveva chiesto la sua scarcerazione
per decorrenza dei termini di custodia cautelare, in base
al rilievo che - secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale
nella sentenza n. 292 del 1998 e nell'ordinanza n. 529 del
2000 - l'art. 304, comma 6, cod. proc. pen. era applicabile
anche all'ipotesi di regressione del procedimento, sicché
alla data del 3 maggio 2003 era maturato il doppio del termine
di fase previsto dall'art. 303, comma 1, lettera a), numero
3, cod. proc. pen. La Corte d'appello aveva respinto la richiesta
di scarcerazione argomentando che «il richiamo della
difesa a quanto previsto dall'art. 304, comma 6, deve ritenersi
inconferente, trattandosi di fattispecie relativa al caso
in cui sia stata disposta la sospensione dei termini della
custodia cautelare».
Tanto premesso, il giudice a quo ricorda che, a seguito della
sentenza interpretativa di rigetto n. 292 del 1998, la Corte
di cassazione a sezioni unite (sentenza 29 febbraio 2000,
n. 4), pur dichiarando di aderire espressamente a tale pronuncia,
aveva risolto il contrasto insorto in ordine al metodo di
calcolo dei termini in caso di regressione del procedimento,
affermando che ai fini della durata massima di fase dovevano
essere computati esclusivamente i periodi di custodia cautelare
trascorsi nella medesima fase. Il rimettente precisa altresì
che tale soluzione era stata stigmatizzata dalla Corte costituzionale
nell'ordinanza n. 529 del 2000 con la quale aveva ribadito
che l'interpretazione dell'art. 304, comma 6, cod. proc. pen.
secondo cui la custodia cautelare perde efficacia allorquando
la sua durata abbia superato un periodo pari al doppio del
termine stabilito per la fase presa in considerazione, anche
nel caso in cui quel termine sia cominciato a decorrere nuovamente
a seguito della regressione del processo, «deve essere
ritenuta costituzionalmente obbligata in forza del valore
espresso dall'art. 13 della Costituzione». Ricorda infine
che la Corte di cassazione, con ordinanza delle sezioni unite
in data 10 luglio 2002, n. 28, sulla base della premessa che
l'art. 303, comma 2, cod. proc. pen. impedisce di addizionare,
nel calcolo del doppio del termine finale di fase, periodi
di detenzione sofferti in fasi o gradi diversi da quelli in
cui il procedimento è regredito, e che non è
possibile - alla luce di quanto precisato dalla Corte costituzionale
con l'ordinanza n. 529 del 2000 - affermare con certezza la
illegittimità costituzionale del criterio di calcolo
imposto da tale norma, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell'art. 303, comma 2, cod. proc. pen., chiedendo
«alla Corte costituzionale, nel rispetto delle reciproche
attribuzioni, di intervenire sulla disposizione indicata con
una pronuncia caducatoria».
Il Tribunale di Torino dichiara di condividere entrambe le
premesse dalle quali muove l'ordinanza di rimessione delle
sezioni unite, e cioè che l'interpretazione letterale
e logico-sistematica dell'art. 303, comma 2, cod. proc. pen.
non consente di dare interpretazioni diverse da quella data
dalle medesime sezioni unite nella sentenza n. 4 del 2000,
e che detta interpretazione, alla luce di quanto affermato
dalla Corte costituzionale nell'ordinanza n. 529 del 2000,
è di dubbia legittimità costituzionale.
Ritenuta la questione rilevante e non manifestamente infondata,
il Tribunale di Torino solleva dunque la questione di legittimità
costituzionale nei termini esposti, osservando che il principio
secondo cui il giudice, tra più interpretazioni, deve
scegliere quella conforme al dettato costituzionale, presuppone
che sia possibile dare alla norma l'interpretazione conforme
ai principî costituzionali sulla base di corretti canoni
ermeneutici.
4. - È intervenuto anche in questo giudizio il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile, perché analoga a quella, sollevata da
altro tribunale e dalla Corte di cassazione, dichiarata manifestamente
inammissibile con ordinanza n. 243 del 2003 da questa Corte,
senza che vengano prospettati nuovi e diversi profili di censura.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. - Il Tribunale di Bari dubita, in riferimento agli artt.
13 e 24 della Costituzione, della legittimità costituzionale
dell'art. 304, comma 6, del codice di procedura penale, nella
parte in cui, richiamando l'art. 303, comma 2, dello stesso
codice ai fini del calcolo della durata massima dei termini
di fase della custodia cautelare, non consente di computare
i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o gradi diversi
del procedimento.
Dal canto suo il Tribunale di Torino dubita, in riferimento
agli artt. 3 e 13 Cost., della legittimità costituzionale
dell'art. 303, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui
prevede, nel caso il procedimento regredisca a una fase o
ad un grado diversi, che dalla data che dispone la regressione
decorrono nuovamente i termini previsti dal comma 1 relativamente
a ciascuno stato o grado del procedimento, anziché
stabilire, secondo quanto disposto dall'art. 304, comma 6,
dello stesso codice, che detti termini non cominciano a decorrere
nuovamente, in quanto la durata complessiva dei termini di
fase non può comunque superare il doppio dei termini
previsti dall'art. 303, comma 1, cod. proc. pen.
Entrambe le ordinanze di rimessione, sia pure rivolgendo
le censure di costituzionalità a norme diverse (rispettivamente,
gli artt. 304, comma 6, e 303, comma 2, cod. proc. pen.),
convergono nel denunciare la disciplina che non consente di
computare, ai fini del calcolo dei termini massimi di fase
previsti dall'art. 304, comma 6, cod. proc. pen., i periodi
di custodia cautelare sofferti in fasi o gradi diversi rispetto
alla fase o al grado in cui il procedimento regredisce. Tale
disciplina è contenuta nell'art. 303, comma 2, cod.
proc. pen., e a questa norma vanno appunto riferite le questioni
sollevate dai rimettenti.
Stante l'identità delle questioni, deve quindi essere
disposta la riunione dei relativi giudizi.
2. - La questione è fondata.
3. - Prima di esaminare il merito delle questioni, è
opportuno ricordare che l'attuale sistema dei termini massimi
della custodia cautelare, il cui impianto risale ad una riforma
del 1984, antecedente all'emanazione del codice di procedura
penale del 1988, è, per sommi capi, articolato in:
- termini di fase, di durata variabile in funzione della
gravità della pena prevista per il reato contestato
o ritenuto in sentenza e della fase in cui si trova il procedimento,
stabiliti dall'art. 303, comma 1, cod. proc pen.;
- termini complessivi, riferiti all'intera durata del procedimento,
comprensivi delle ipotesi di proroga di cui all'art. 305 cod.
proc. pen., anch'essi variabili in funzione della gravità
della pena prevista per il reato, disciplinati dall'art. 303,
comma 4, cod. proc. pen.;
- termini finali complessivi, in funzione di limite massimo
insuperabile (c.d. massimo dei massimi) anche ove si verifichino
ipotesi di sospensione, proroga o neutralizzazione del decorso
dei termini di custodia cautelare. Originariamente previsti
dal comma 4 dell'art. 304 cod. proc. pen. in misura non superiore
ai due terzi del massimo della pena temporanea prevista per
il reato contestato o ritenuto in sentenza, a seguito delle
modifiche introdotte dalla legge 8 agosto 1995, n. 332, tali
termini sono ora disciplinati dal comma 6, con riferimento
ai termini complessivi contemplati dall'art. 303, comma 4,
aumentati della metà, ovvero, se più favorevoli,
nella misura dei due terzi del massimo della pena temporanea
prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza;
- termini finali di fase, contemplati per la prima volta
dal comma 6 dell'art. 304 cod. proc. pen. a seguito delle
modifiche introdotte dalla legge n. 332 del 1995, in funzione
di limiti massimi insuperabili per ciascuna fase, nella misura
massima del doppio dei termini di fase previsti dall'art.
303, comma 1, cod. proc. pen., e operanti, per l'espresso
richiamo all'art. 303, comma 2, cod. proc. pen., anche in
caso di regressione del procedimento o di rinvio ad altro
giudice (in tal senso v. sentenza n. 292 del 1998).
La legge n. 332 del 1995 ha dunque introdotto nuove garanzie
prevedendo, in relazione alla durata sia dei termini complessivi,
sia dei termini di fase, dei limiti "finali" insuperabili,
destinati ad operare anche nelle ipotesi di sospensione, proroga
e neutralizzazione dei termini di durata della custodia cautelare.
4. - Entrata in vigore la riforma del 1995, la potenziale
interferenza tra la natura invalicabile dei termini finali,
posti dal comma 6 dell'art. 304 cod. proc. pen. anche con
riferimento ai termini di fase, e la decorrenza ex novo dei
termini di fase in caso di regressione prevista dall'art.
303, comma 2, cod. proc. pen. è stata per la prima
volta presa in esame dalla sentenza di questa Corte n. 292
del 1998.
In tale decisione la Corte ha affermato che «l'unica
soluzione ermeneutica enucleabile dal sistema e che si appalesa
in linea con i valori della Carta fondamentale» è
quella secondo cui «il superamento di un periodo di
custodia pari al doppio del termine stabilito per la fase
presa in considerazione, determina la perdita di efficacia
della custodia, anche se quei termini sono stati sospesi,
prorogati o [...] sono cominciati a decorrere nuovamente a
seguito della regressione del processo». Questa interpretazione
- prosegue la Corte - «è d'altra parte aderente
alla ratio di favor che ha ispirato il legislatore del 1995,
ad un effettivo recupero della scelta di introdurre uno sbarramento
finale ragguagliato anche alla durata dei termini di fase
comunque modulata, e, infine, alla stessa logica dell'art.
13 della Carta fondamentale, la quale impone di individuare,
fra più interpretazioni, quella che riduca al minimo
il sacrificio della libertà personale».
Alla base della decisione della Corte sta il collegamento
della disciplina dei termini di durata della custodia cautelare
al principio costituzionale di proporzionalità, cui
si ispira anche il nuovo termine finale di fase, che individua
«il limite estremo, superato il quale il permanere dello
stato coercitivo si presuppone essere "sproporzionato",
in quanto eccedente gli stessi limiti di tollerabilità
del sistema».
La formulazione letterale dell'art. 304, comma 6, cod. proc.
pen. dimostra d'altronde, mediante il ricorso all'avverbio
«comunque», che i limiti massimi insuperabili
vanno riferiti «anche ai fenomeni che comunque possono
interferire con la disciplina dei termini di fase [...], specie
quando, come nel caso in esame, la soluzione ermeneutica si
appalesi come l'unica conforme a Costituzione». Il carattere
di chiusura del comma 6 è d'altra parte comprovato
dal richiamo non solo al comma 1 dell'art. 303 cod. proc.
pen., ove viene definita la durata dei termini di fase, ma
anche al comma 2, che riguarda appunto il caso della regressione,
rendendo evidente che il limite insuperabile del doppio dei
termini di fase opera anche in tale ipotesi.
Tali conclusioni sono ribadite dalla successiva ordinanza
di manifesta infondatezza n. 429 del 1999, con la quale la
Corte riafferma che il «valore assoluto e non condizionato»
della norma impone di ritenere, «come soluzione ermeneutica
costituzionalmente obbligata», che il limite costituito
da «un periodo di custodia pari al doppio del termine
stabilito per la fase presa in considerazione» opera
anche quando i termini sono incominciati nuovamente a decorrere
a seguito della regressione del processo.
5. - A seguito della soluzione interpretativa indicata da
questa Corte, a partire dal 2000 le sezioni unite della Cassazione
sono intervenute a dirimere contrasti tra le sezioni semplici.
Alcune sezioni, infatti, hanno affermato che, ai fini del
computo del termine finale pari al doppio del termine di fase,
devono essere considerati anche i periodi di custodia sofferti
in fasi o gradi diversi rispetto a quelli in cui il procedimento
regredisce, mentre altre hanno ritenuto che al medesimo fine
devono essere calcolati soltanto i periodi di custodia patiti
durante le fasi omogenee, e non anche nelle fasi intermedie.
Nella decisione n. 4 del 2000 le sezioni unite premettono
che «il reale problema consiste nello stabilire se [...]
debbano cumularsi indiscriminatamente alla durata della custodia
nella fase o nel grado aperto dal provvedimento di annullamento
o di regressione quella relativa a tutte le fasi o gradi pregressi
oppure soltanto la durata della custodia sofferta nella fase
o grado al quale il processo è tornato». Secondo
le sezioni unite, «nell'assoluto silenzio della motivazione»
della sentenza n. 292 del 1998 della Corte costituzionale
sul punto, il computo dei periodi di custodia sofferti in
tutte le fasi intermedie significherebbe, «nella sostanza,
far perdere a quel limite il carattere rigorosamente endofasico
o monofasico, che normativamente lo tipicizza, e creare un
nuovo termine finale plurifasico, estraneo alle previsioni
degli artt. 303 e 304, comma 6, cod. proc. pen., alterando,
per tale via, le linee essenziali della disciplina dettata
dal codice, che non conosce altra distinzione che quella tra
termini di fase e termine complessivo. Resta con ciò
confermato che l'eliminazione della frattura e della separatezza
della fase successiva all'annullamento [...] non può
avere altro effetto che quello di permettere il collegamento
della predetta fase con quella precedente nella quale è
stato pronunciato il provvedimento annullato e, così,
di rendere possibile l'unificazione della durata della custodia
cautelare sofferta nei due segmenti processuali, avvinti da
una relazione di corrispondenza e di omogeneità per
la ragione che il primo può considerarsi come ripristino
del secondo».
Con due successive ordinanze la Corte costituzionale ribadisce
che, «in forza del valore espresso dall'art. 13 della
Costituzione» e dell'uso dell'avverbio «comunque»
nell'art. 304, comma 6, cod. proc. pen., l'interpretazione
sinora seguita «deve essere ritenuta costituzionalmente
obbligata» (ordinanza n. 214 del 2000) e che è
quindi erroneo (ordinanza n. 529 del 2000) il presupposto
interpretativo che «ai fini del termine massimo di cui
all'art. 304, comma 6, vadano calcolati soltanto i periodi
di custodia cautelare subiti dall'imputato in fasi omogenee».
Nell'ordinanza n. 529 del 2000 la Corte precisa che, contrariamente
a quanto ritenuto dalla stessa Corte di cassazione a sezioni
unite, la sentenza n. 292 del 1998 si riferisce, come risulta
chiaramente dalla esposizione in fatto, a un «imputato
che aveva visto regredire il suo procedimento e aveva subito
custodia cautelare in fasi non omogenee, e proprio in ragione
di ciò la relativa questione era stata ritenuta rilevante
e decisa nel merito mediante una soluzione interpretativa
coerente con i principî di proporzionalità della
pena e di inviolabilità della libertà personale».
Pertanto, «una volta stabilito che l'art. 13 Cost. impone
di "individuare il limite estremo, superato il quale
il permanere dello stato coercitivo si presuppone essere sproporzionato
in quanto eccedente gli stessi limiti di tollerabilità
del sistema" (sentenza n. 292 del 1998), non vi è
luogo ad introdurre distinzioni riferite alle ragioni che
hanno determinato il nuovo corso del termine, come del resto
risulta dal testo dell'art. 304, comma 6, cod. proc. pen.,
che esplicitamente richiama i primi tre commi dell'art. 303».
Sicché, soltanto se si include nel calcolo dei termini
finali di fase anche la custodia cautelare subita dall'imputato
in fasi diverse, «la disposizione censurata mantiene
integra la sua naturale sfera di applicazione e non resta
limitata [...] ai casi eccezionali di molteplici regressioni
del procedimento o di pluralità di evasioni».
A seguito di tale pronuncia, le sezioni unite hanno sollevato,
con l'ordinanza iscritta al n. 434 del registro ordinanze
del 2002, questione di legittimità costituzionale dell'art.
303, comma 2, cod. proc. pen., ribadendo che tale norma impedisce
di computare ai fini dei termini massimi di fase di cui all'art.
304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in una fase
o in un grado diversi da quello in cui il procedimento è
regredito. Il codice avrebbe difatti accolto per i termini
di fase della custodia una concezione "monofasica"
o "endofasica", distinguendo unicamente tra termini
di fase e termine complessivo, senza prendere in considerazione
il periodo "interfasico", sì che, «quando
l'art. 303, comma 2, cod. proc. pen. fa riferimento ai termini
che decorrono di nuovo, a questi si possono sommare [...]
solo entità omogenee, e cioè i periodi trascorsi
nella stessa fase».
Richiamandosi al principio, affermato nella sentenza n. 292
del 1998, della riduzione al minimo necessario del sacrificio
della libertà personale, i giudici rimettenti tentano
poi di conciliare l'indirizzo sino ad allora sostenuto dalla
Corte costituzionale con le posizioni delle sezioni unite,
affermando che «il periodo trascorso nella fase intermedia
[...] non va perduto, ma, per così dire, accreditato
alla fase di competenza, con la conseguenza che vi sarà
sommato quando il procedimento l'avrà raggiunta. In
questo modo il sacrificio per il soggetto privato è
comunque di carattere transitorio e certo non può paragonarsi
[...] agli effetti di rottura del sistema che il criterio
del cumulo indifferenziato irragionevolmente è in grado
di provocare».
Con ordinanza n. 243 del 2003 questa Corte ha dichiarato
la questione manifestamente inammissibile, per essere la motivazione
perplessa e contraddittoria, non mancando tuttavia di rilevare
come la costruzione delle sezioni unite circa il recupero
della custodia cautelare finisca per subordinare «il
principio di proporzionalità all'appagamento delle
esigenze della fase processuale» e riduca «il
principio del minor sacrificio della libertà personale
ad una sorta di credito di libertà spendibile nelle
eventuali fasi successive». Le ordinanze n. 335 del
2003 e n. 59 del 2004 dichiarano poi manifestamente inammissibili
per difetto di motivazione successive analoghe questioni di
legittimità costituzionale.
Con la sentenza n. 23016 del 2004 le sezioni unite della
Corte di cassazione confermano l'indirizzo già espresso
nelle precedenti decisioni, ribadendo che «il coordinamento
degli artt. 304, comma 6, e 303, comma 2, del codice porta
univocamente a ritenere che, per il calcolo del doppio dei
termini di fase, siano cumulabili esclusivamente le fasi e
i gradi omogenei, per la puntuale ragione che soltanto questi
rappresentano segmenti processuali avvinti da una relazione
di corrispondenza, di omogeneità e di successione funzionale,
di talché, rispetto alla disposizione ex art. 303,
comma 2, il grado successivo può essere considerato
come ripristino del primo». Sostenere che nel doppio
del termine di fase debbano cumularsi tutti i periodi di custodia
cautelare sofferti in fasi diverse significherebbe, a parere
della Corte di cassazione, «sconvolgere l'assetto complessivo
dell'impianto codicistico che non conosce altra distinzione
che quella tra termini di fase e termini complessivi di durata»,
introducendo «un termine "interfasico" o "plurifasico",
che ingloba, in forma anomala ed ibrida, segmenti custodiali
propri di fasi eterogenee, in tal modo realizzando un'operazione
manipolatrice della normativa, il cui reale significato consiste
nella piena cancellazione dell'art. 303, comma 2, senza un'espressa
declaratoria di illegittimità costituzionale, e nella
radicale riperimetrazione del sistema vigente in materia di
termini della custodia cautelare».
Come già rilevato, nell'ordinanza n. 529 del 2000
questa Corte ha ritenuto che l'interpretazione patrocinata
dalle sezioni unite sia tale da svuotare sostanzialmente la
portata dell'art. 304, comma 6, cod. proc. pen., in quanto
di norma per determinare il nuovo termine finale di fase conseguente
al regresso del procedimento sarebbe sufficiente il termine
definito dall'art. 303, comma 2, dello stesso codice, che
stabilisce che a seguito del regresso riprende a decorrere
l'ordinario termine della fase in cui il procedimento è
regredito. Il termine di cui all'art. 304, comma 6, cod. proc.
pen. avrebbe cioè uno spazio di operatività
solo quando i termini di durata della custodia cautelare sono
stati sospesi in base alle previsioni dello stesso art. 304
cod. proc. pen., ovvero nei casi di plurime regressioni del
procedimento, riducendosi in tali limiti la funzione di garanzia
ultima della durata massima della custodia cautelare svolta
dai termini finali di fase.
Tale garanzia non risulterebbe assicurata neppure dal criterio
- del così detto credito di libertà - secondo
cui sarebbe possibile recuperare e accreditare nella successiva
fase di competenza il periodo di custodia cautelare trascorso
nella fase intermedia. Il recupero è infatti una evenienza
non solo futura e incerta (posto che l'imputato potrebbe essere
prosciolto o medio tempore scarcerato o comunque il procedimento
potrebbe non pervenire, per le più varie cause, a fasi
o gradi ulteriori), ma non può verificarsi proprio
nel caso più ricorrente di regressione del procedimento,
e cioè in caso di annullamento di una sentenza di appello
confermativa di una condanna di primo grado: situazione per
la quale non valgono più termini custodiali "di
fase", ma esclusivamente quelli complessivi di cui all'art.
303, comma 4, cod. proc. pen., giusta il disposto del comma
1, lettera d), ultimo periodo, del medesimo articolo.
6. - Nel corso della vicenda in esame la Corte costituzionale
ha applicato il principio di astenersi dal pronunciare una
dichiarazione di illegittimità sin dove è stato
possibile prospettare una interpretazione della norma censurata
conforme a Costituzione, anche al fine di evitare il formarsi
di lacune nel sistema, particolarmente critiche quando la
disciplina censurata riguarda la libertà personale.
Sulla base di questo consolidato orientamento giurisprudenziale,
la Corte ha appunto pronunciato la sentenza interpretativa
di rigetto n. 292 del 1998, ed ha poi confermato la scelta
della via interpretativa dopo i primi interventi delle sezioni
unite della Cassazione, sollecitate a dirimere i contrasti
insorti in materia tra le diverse sezioni, sino a quando la
Corte di cassazione a sezioni unite ha confermato con particolare
forza il proprio indirizzo interpretativo nella sentenza n.
23016 del 2004.
A seguito di tali decisioni e, in particolare, della sentenza
da ultimo citata, non vi è dubbio che l'indirizzo delle
sezioni unite debba ritenersi oramai consolidato, sì
da costituire diritto vivente, rispetto al quale non sono
più proponibili decisioni interpretative.
7. - Le considerazioni svolte nella sentenza n. 292 del 1998
e nelle successive ordinanze in precedenza menzionate circa
il rispetto dei principî di adeguatezza e di proporzionalità,
operanti anche in relazione ai limiti che deve incontrare
la durata della custodia cautelare, discendono direttamente
dalla natura servente che la Costituzione assegna alla carcerazione
preventiva rispetto al perseguimento delle finalità
del processo, da un lato, e alle esigenze di tutela della
collettività, dall'altro, tali da giustificare, nel
bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo
sacrificio della libertà personale di chi non è
ancora stato giudicato colpevole in via definitiva.
Nella giurisprudenza della Corte, d'altro canto, le esigenze
che impongono, nella logica dell'art. 13 Cost., di privilegiare
soluzioni che comportino il minor sacrificio della libertà
personale trovano le loro radici nella fondamentale sentenza
n. 64 del 1970, che ha aperto la via alla vigente disciplina
in tema di termini massimi - di fase, complessivi e finali
- della custodia cautelare.
La Corte - allora chiamata a pronunciarsi, tra l'altro, sulla
legittimità costituzionale dell'art. 272 del codice
di procedura penale del 1930, nella parte in cui limitava
«l'operatività dei termini massimi della custodia
preventiva alla sola fase istruttoria» e consentiva
che, dopo la chiusura dell'istruzione, la custodia non fosse
soggetta ad alcun limite - nell'accogliere la questione muove
dalla constatazione che con l'art. 13, quinto comma, la Costituzione
ha voluto evitare che il sacrificio della libertà determinato
dalla custodia preventiva «sia interamente subordinato
alle vicende del procedimento; ed ha, pertanto, voluto che,
con la legislazione ordinaria, si determinassero i limiti
temporali massimi della carcerazione preventiva, al di là
dei quali verrebbe compromesso il bene della libertà
personale, che [...] costituisce una delle basi della convivenza
civile».
La stessa Corte precisa peraltro che le statuizioni della
sentenza «non precludono al legislatore una nuova disciplina
della materia, eventualmente differenziata [...] anche in
relazione alle varie fasi del procedimento, purché,
in conformità con l'ultimo comma dell'art. 13 della
Costituzione, si assicuri in ogni caso la predeterminazione
d'un ragionevole limite di durata della detenzione preventiva».
Per essere conformi a Costituzione i termini massimi devono
dunque coprire l'intera durata del procedimento, sino alla
sentenza definitiva; ove non fossero disciplinati termini
massimi di custodia cautelare, il sacrificio della libertà
risulterebbe infatti interamente subordinato alle esigenze
processuali e ne risulterebbe compromesso il bene fondamentale
della libertà personale; ove siano previsti termini
massimi in relazione alle varie fasi del procedimento, la
relativa disciplina deve essere tale da assicurare in ogni
modo un ragionevole limite di durata della custodia, in conformità
d'altra parte ai parametri di proporzionalità e adeguatezza
interni allo stesso precetto sancito dall'ultimo comma dell'art.
13 Cost.
Le limitazioni della libertà connesse alle vicende
processuali devono rispettare il principio di proporzionalità,
posto che contrasterebbe con il giusto equilibrio tra le esigenze
del processo e la tutela della libertà una disciplina
della detenzione cautelare priva di limiti di durata ragguagliati,
da un lato, alla pena prevista per il reato contestato o ritenuto
in sentenza e, dall'altro, alla concreta dinamica del processo
e alle diverse fasi in cui esso si articola. Unitamente al
principio di adeguatezza, il criterio di proporzionalità
tra la gravità della pena prevista per il reato e la
durata della custodia lungo l'intiero corso del procedimento
ispira l'esigenza di assicurare un ragionevole limite di durata
della custodia cautelare in relazione alla sua durata complessiva
e alle singole fasi del processo.
Processo e fatto di reato sono infatti termini inscindibili
del binomio al quale va sempre parametrata la disciplina della
custodia cautelare e ad entrambi deve sempre essere ancorata
la problematica dei termini entro i quali la durata delle
misure limitative della libertà personale può
dirsi proporzionata e, quindi, ragionevole: tra l'altro, in
conformità ai valori espressi dall'art. 5, par. 3,
della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, secondo l'interpretazione
datane dalla Corte di Strasburgo. Nel sistema attuale, la
durata ragionevole è, appunto, assicurata anche dai
termini massimi di fase, in quanto proporzionati alla effettiva
evoluzione della situazione processuale dell'imputato.
Infine, proporzionalità e ragionevolezza stanno alla
base del principio secondo cui, in ossequio al favor libertatis
che ispira l'art. 13 Cost., deve comunque essere scelta la
soluzione che comporta il minor sacrificio della libertà
personale.
La tutela della libertà personale che si realizza
attraverso i limiti massimi di custodia voluti dall'art. 13,
quinto comma, Cost. è quindi un valore unitario e indivisibile,
che non può subire deroghe o eccezioni riferite a particolari
e contingenti vicende processuali, ovvero desunte da una ricostruzione
dell'attuale sistema processuale che non consenta di tenere
conto, ai fini della garanzia del termine massimo finale di
fase, dei periodi di custodia cautelare "comunque"
sofferti nel corso del procedimento.
9. - Sulla base di tali principî, ai quali questa Corte
si è costantemente richiamata per interpretare la disciplina
censurata in modo conforme a Costituzione, e preso atto che
si è formato un diritto vivente incompatibile con l'interpretazione
sinora sostenuta, la Corte stessa non può che dichiarare
l'illegittimità costituzionale dell'art. 303, comma
2, cod. proc. pen. per contrasto con gli artt. 3 e 13 Cost.
La disciplina impugnata è infatti lesiva di tali parametri
costituzionali nella parte in cui non consente che i periodi
di custodia cautelare derivanti da errores in judicando o
in procedendo che hanno comportato la regressione del procedimento,
sofferti in momenti processuali diversi dalla fase o dal grado
in cui il procedimento è regredito, siano computati
ai fini dei termini massimi di fase determinati dall'art.
304, comma 6, cod. proc. pen.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art.
303, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte
in cui non consente di computare ai fini dei termini massimi
di fase determinati dall'art. 304, comma 6, dello stesso codice,
i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o in gradi
diversi dalla fase o dal grado in cui il procedimento è
regredito.
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