AREA GRECANICA "Ellenofoni di Calabria"
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Culla secolare della minoranza linguistica ellenofona, l'Aspromonte Jonico Meridionale custodisce immutate le tracce della sua antica natura di crocevia sul Mediterraneo.......Ston dicòmma cceddo cosmo mediterraneo pu spithìa fènondo to mblèscima ce to chòrimma mènusi zondàrese ghenèese cceddunedde, ti stecusi stin acri, ti fevgusi stin scenìa, ti pausi sti scenìa.
Roccaforte del Greco, Area Grecanica: Tarantella e socialita' nell'aspromonte (R.C.) Italy Italiano  English version
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Musica e strumenti

Musica e strumenti dell'Aspromonte greco. La musica e il canto tradizionale sono state in era pretelevisiva il divertimento pressoché esclusivo in tutto l'Aspromonte greco. La musica tradizionale e i suoi strumenti accompagnavano tutte le fasi del ciclo della vita e dell'anno: matrimoni, battesimi (canzoni e sonate a ballu), funerali (lamento funebre), nonché le feste comandate: il Santo patrono, Natale, Capodanno, Pasqua, Carnevale.
Tutte le feste private erano inoltre rallegrate dal suono tradizionale costituendo una continua occasione di socializzazione e di divertimento, legata soprattutto ai momenti di ballo.

Permane un tessuto di musicisti e cantori tradizionali e l'Aspromonte ellenofono riserva comunque tutt'ora al visitatore attento, interessato alla musica tradizionale, più di una sorpresa.
A partire dal 1997 si svolge un festival territoriale molto esteso con tema la musica etnica del Mediterraneo accanto a quella dei greci di Calabria. Si tratta di una formula rinnovata del festival di musica e canzone ellenofona, promosso già dai primi anni '80 dal Comune di Bova. Il nome della manifestazione rinnovata è Palearìza (l'antica radice). Il festival ha mantenuto, come suo fiore all'occhiello culturale, una serata interamente centrata sulla musica tradizionale, pastorale e contadina dei greci di Calabria.

Tra gli strumenti della tradizione contadina e pastorale ellenofona si possono segnalare: la zampogna (ciarameddi), il doppio flauto (sulàvria), il flauto di corteccia (frauta), l'organetto (arganettu), il tamburello (tambureddu).

 

Il ballo dell'anima


La viddanedda ha la sua origine in alcune manifestazioni rituali legate alla cultura ed alla civiltà della Magna Grecia, ritmo liberatorio e con simbologie che ne determinano gli atteggiamenti coreografici. Nei secoli le occasioni di ballo sono state legate quasi sempre alle festività familiari, a quelle agresti, in occasione, ad esempio della vendemmia o della trebbiatura, ed a quelle religiose. Quanto al simbolismo dei passi, delimitato lo spazio in cui il ballo doveva svolgersi, veniva prescelto un capo carismatico, un mastru d’abballu, che con gesti garbati dettava le entrate e le uscite degli spettatori nell’aria di sua pertinenza. C’era poi anche il rituale del corteggiamento, con incroci di sguardi e cenni inequivocabili. Il filo melodico della viddanedda è affidato all’organetto, un aerofono, mentre la scansione ritmica è assicurata dal tamburello, costituito da una membrana tesa su una semplice cornice, in legno sottile, generalmente di forma circolare. Per aumentarne la sonorità, il tamburello è arricchito da una fila a doppia serie di sonagli di latta.

Tarantella e socialita' nell'aspromonte

"Foregguo po dhelo (*), Ballo come voglio"

Tarantella e socialità nell'Aspromonte greco di Ettore Castagna
(da Pucambù - Guida al Turismo Sostenibile nella Calabria Greca - Editore Rubbettino - 2002)

Certamente sappiamo che la festa e la danza tradizionale erano due elementi indissolubili nel mondo popolare greco-calabro almeno sino alla seconda guerra mondiale. In tutto l’Aspromonte greco comprendendo anche l’area di Cardeto (ellenofona sino al primo novecento) ballare era una condizione decisiva addirittura per potersi sposare. Si facevano chilometri a piedi per ballare e nei giorni di festa comandata e la comune vita del paese era sospesa per consentire suono e ballo ininterrotto. Nella società tradizionale le occasioni di ballo, sia domestico (feste in casa più o meno occasionali) che pubblico (festa del santo, matrimoni, battesimi, carnevale, etc.) erano gli unici momenti in cui i giovani potevano, per lo meno, guardarsi seppure sotto il controllo ferreo del capo famiglia e magari aspirare a fare un breve giro di danza assieme. La stessa danza avrebbe portato con sé l’occasione di leggere, attraverso tutto il codice simbolico coreutico del corteggiamento, la possibilità di un assenso sentimentale negli occhi o nelle mani di un ragazzo o di una ragazza. Varie testimonianze raccolte nelle aree citate confermano che un bravo ballerino trovava più facilmente moglie. Danzare era un’occasione per mettere in mostra destrezza, abilità e fierezza negli uomini, garbo, portamento e femminilità per le donne. "Mettersi in mostra" con un bel giro di tarantella, in sostanza, avrebbe facilitato ed accelerato il fidanzamento. Un bravo ballerino in famiglia era cosa molto gradita. Tutto ciò ancora sino agli anni ‘60/’70 del ‘900.

Ma danzare, prima della disintegrazione definitiva del cosmo antropologico ellenofono dell’Aspromonte, avvenuta in tempi relativamente recenti, era comunque un fatto sociale di grande rilevanza, una forma comunicativa adatta ad esprimere i bisogni, i messaggi e gli stati d’animo più complessi e differenti. La stessa danza tradizionale era sacra nelle occasioni di festa religiosa per chiedere grazia, per mantenere un voto o per semplice devozione, profana per celebrare il Carnevale con le sue colorazioni pagane ed edonistiche (famoso era quello di Bova, scomparso con gli anni '60), assolutamente laica nelle feste domestiche, immancabilmente rituale per matrimoni e battesimi. Si percorrevano chilometri a piedi da una contrada all’altra anche la sera ed al buio per andare a trovare un amico che "offriva da ballare" in una piccola festa familiare. Con la stessa passione si sarebbero affrontate le sette ore a piedi per andare sino a Reggio per farsi un giro di tarantella alla festa della Madonna della Consolazione o altrettante per raggiungere Polsi e ballare fuori il santuario.

Una fiaba ellenofona "I tre fratelli"(*), raccolta probabilmente nella bovesìa e pubblicata da Luigi Bruzzano sul numero del 15 dicembre 1889 de "La Calabria" conferma il grande valore simbolico socialmente attribuito non solo al ballo quanto al danzare bene.

Tre fratelli dopo la morte del padre decidono di andare soldati per trovare fortuna. Uno dopo l’altro, durante le notti di guardia, si imbatteranno in un gigante che li sfiderà a duello. Naturalmente l’alternativa è fra la morte del soldatino o un dono magico da ricevere contrastando il gigante. Tutti e tre i fratelli riusciranno nell’impresa. Sempre il gigante ferito ammetterà il valore del contendente consegnandogli alcuni premi fatati. Anche i doni sono tre: una borsa inesauribilmente piena di monete, un mantello che rende invisibili ed un paio di stivaletti che fanno correre veloce e ballare bene. Reduci dal militare i tre fratelli inizieranno a condurre una vita agiata sino a quando il più piccolo non decide di partire portando con sé prima la borsa dei denari e poi gli stivaletti. Una principessa cattiva, simbolo inequivocabile di una nobiltà avida e ben poco "fiabesca", si impossesserà di questi due doni magici con la forza, minacciando di imprigionare il piccolo eroe. Alla fine i primi due doni del gigante saranno poi riconquistati con furbizia e con l’utilizzo del mantello che rende invisibili nonché la principessa cattiva immancabilmente punita. La fiaba ci conferma il grande valore culturale e sociale attribuito, potremmo dire, allo "status" del buon danzatore. Difatti la principessa cattiva vedendo ballare bene il piccolo eroe prima gli chiede lezioni di danza per ben quindici giorni ma dopo, capendo che la virtù è negli accessori fatati, si impossessa con la forza degli stivaletti.

(...) Ejai isa isa eci cindo palazzo azze abballo, embichi foreggonda. Horonda i principissa tupe:
- Posene ce foregghi otu?
- Eho tundo zugguari stuvaletti ce foregguo po dhelo ce canno qualunque abballo.
- Ce maddhenni emmena ja decapende mere, na ivro a mafdhenno ciola ego na foreszo po foregghi esu?
Otu embichissa foreggonda oli ci dio, ma i principissa en eforegghe pos eforegghe ecino.
Otu tu arripundezze:
- Dommu mia stuvaletta emmena, an ivro assoso foreszi po foregghi esu.
Otu ecino tistinediche. Eforegghe, ma en eforegghe cala.. Tupe i principissa:
- Ma eforegga cala. Dommu tinaddhi stuvaletta, na ivro afforezzo cala
Otu tinegguale ce tistin ediche. Dopu ti tes evale sta podìa, ecame prova ce foregghe cala. san ivre ti foregghi cala, ecrasze all’armi (...)
(...) Si recò subito a quel palazzo ove si ballava ed entrò ballando. La principessa gli disse:
- Com’è che balli così?
- Ho questo paio di stivaletti e ballo come voglio
- Insegna anche a me per quindici giorni per vedere se imparo a ballare come te
Cominciarono a ballare tutti e due ma la principessa non ballava come lui. Gli disse:
- Dammi uno dei tuoi stivaletti per vedere se posso ballare come balli tu
Quello glielo diede. Ballava ma non bene. Gli disse la principessa:
- Ma io non ballo bene. Dammi l’altro per vedere se ballo bene
Se lo tolse e glielo diede. La principessa, dopo esserseli messi ai piedi fece la prova e ballava bene.
Quando vide ciò gridò all’armi(...)

Per chi conosce il mondo coreutico popolare questa fiaba potrebbe portare con sè una contraddizione. Nella danza tradizionale il ballo maschile e quello femminile sono molto differenziati. Normalmente, ancora oggi, non è apprezzato uno stile "masculinu" in una donna e quello "fimmininu" è imitato dagli uomini solo ironicamente. Per cui molto probabilmente quello che la principessa vuole carpire all’eroe della fiaba è il segreto del ballare bene. Non si tratta, con gli occhi di oggi, della richiesta di quindici giorni di lezioni di danza. Dunque la principessa è interessata alla qualità del ballare, a ciò che rende quel modo unico ed insuperabile. Difatti non è un problema di passi e di figure. Quando la principessa comprende che la virtù è nell’oggetto, si impossessa degli stivaletti di colpo balla "bene", ottiene ciò che cerca e chiama le guardie perché caccino via il protagonista.

Fra le varie testimonianze raccolte sul valore attributo non solo al ballo ma anche al "saper ballare" inteso come ben figurare in occasioni pubbliche e private è abbastanza significativa quella riferitami da Santo Crisèo, musicista e danzatore tradizionale di Bova. Erano gli anni della seconda guerra mondiale. Santo, allora ragazzino, andava a prendere l’acqua con i muli e le botti un po’ fuori paese. Naturalmente il tempo per riempire le botti non era breve perché fra l’altro l’acqua di quella fonte scorreva lentamente. Fu così che Santo prese l’abitudine di appendere la giacca ad un alberello di limone accanto alla sorgente ed a ballare intorno alla pianta per esercitarsi. Si immaginava la musica e ballava. Col passare del tempo ci prese sempre più gusto sino a quando arrivò a passare molto più tempo ballando con l’albero che a riempire le botti. La cosa andò avanti per alcuni anni e tutte le volte che il giovanotto andava alla fonte a prendere l’acqua. Il terreno intorno all’albero era così compatto e calpestato che non riusciva a crescervi nulla. Santo racconta che ancora oggi intorno a quel limone non cresce più l’erba.

(*) Il testo di fine ottocento fu probabilmente allora trascritto dal ricercatore "così come ascoltato", questo giustifica forme come "foregguo" in luogo di "choregguo", etc. La fiaba è presente in : Ottavio Cavalcanti, Re, maghi, briganti, poveri e fate..., Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 1999.

articolo riportato dal sito dell'associazione culturale conservatorio Grecanico https://www.conservatoriogrecanico.it

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