L’approvvigionamento di beni e servizi e la realizzazione
di grandi opere da parte della Pubblica Amministrazione, ha
spesso rappresentato, nel tempo, uno dei canali preferiti
per la commistione di interessi “pubblico/privato”,
non sempre trasparenti e meno che mai leciti.
Le vicende di “Tangentopoli” ci hanno illustrato
alcuni meccanismi perversi di intreccio fra economia e politica,
che l’Autorità Giudiziaria e, ancor prima la
stessa Società civile, hanno abbondantemente condannato.
In questo quadro, le Organizzazioni e/o Imprese in odore
di mafia, almeno in passato, operavano nel mezzogiorno d’Italia,
con l’intento di raggiungere gli stessi obiettivi ove,
pur senza apparire, spesso riuscivano ad infiltrarsi, di fatto,
se non nella fase formale della aggiudicazione, in quella
materiale della realizzazione di opere pubbliche per svariati
miliardi.
Agli inizi degli anni ’90, con la Legge 19 marzo 1990,
nr.55 (1), furono migliorati alcuni meccanismi nelle procedure
di concessione degli appalti nella Pubblica Amministrazione,
allo scopo di contenere, con maggiore efficacia, la recrudescenza
mafiosa.
Per meglio chiarire il concetto, riporto una breve sintesi
degli accorgimenti normativi all’epoca introdotti:
• La presentazione di offerte o la partecipazione a
gare per gli appalti di opere o lavori pubblici per i cui
importi e categorie erano iscritte all’Albo Nazionale
dei Costruttori le imprese singole, ovvero associate o consorziate;
• Le opere da subappaltare o da affidare a cottimo,
ivi compresi gli impianti e i lavori speciali, non potevano
superare il 40% dell’importo netto di aggiudicazione;
• Nei confronti dell’impresa affidataria del subappalto
o del cottimo non dovevano sussistere alcuno dei divieti che
sono posti a carico di coloro ai quali sia stata applicata
una misura definitiva di prevenzione (le c.d. Misure di Prevenzione
di carattere personale ex legge nr.1423/1956, quali Divieto
e/o Obbligo di soggiorno, Sorveglianza speciale). Le opere
da subappaltare dovevano essere già state indicate
dall’appaltatore all’atto della presentazione
dell’offerta;
• In presenza di opere superiori a determinati importi,
l’impresa appaltatrice e/o subappaltatrice, era tenuta
alla presentazione di apposita Certificazione Antimafia;
• Il regime autorizzatorio relativo al subappalto e
cottimo era esteso anche ai subcontratti di nolo a caldo e
a quelli similari che prevedevano l’impiego della manodopera
da parte dell’impresa affidataria.
2
Ciò detto, una volta aggiudicata la realizzazione
della grande opera pubblica, nella generalità dei casi
ad aziende del Nord Italia, quasi in concomitanza all’apertura
dei cantieri, la maggior parte degli impianti e macchinari
necessari, venivano forniti da piccole e/o medie imprese locali
(mi riferisco alle pale meccaniche utilizzate per il movimento
terra, alle gru, alle grosse betoniere, impianti di calcestruzzo
etc.), spesso contigue, queste ultime, ad associazioni mafiose
o comunque impresentabili in una gara pubblica.
L’espediente utilizzato, era, per l’appunto,
il “Nolo a freddo”, ovvero noleggiare il macchinario
e/o l’impianto senza l’operaio addetto, per il
quale la stessa normativa non prevedeva alcun particolare
adempimento in termini di Certificazione Antimafia.
Il dipendente, gruista (o altro operaio specializzato nella
conduzione del costoso macchinario e già dipendente
della impresa locale), con l’avvio del contratto di
noleggio con l’Azienda aggiudicataria della grande Opera
Pubblica (peraltro supervalutato, onde includere la c.d vigilanza
di cantiere), veniva “licenziato” per essere,
guarda caso, contestualmente “assunto” dall’Impresa
aggiudicataria dei lavori, realizzando in tal modo, nei fatti,
un “Nolo a caldo” in evidente elusione dei rigori
della norma.
In una particolare occasione, ricordo di aver evidenziato
e, in qualche misura, stigmatizzato << all’epoca
ero un Ufficiale della G.di F., responsabile di una Sezione
Investigativa sulla Criminalità Organizzata >>,
l’aggiramento della normativa all’Amministratore
di una importante Società di capitali, vincitrice dell’appalto
e che aveva peraltro già realizzato diverse strutture
portuali sulla costa calabrese, il quale, al riguardo, grosso
modo ebbe a riferirmi:
“Egregio Comandante, io sono un imprenditore che per
lavorare devo preoccuparmi soprattutto della sicurezza del
cantiere. Questo stratagemma che lei ha scoperto mi consente,
nel rispetto della norma, di raggiungere questo fondamentale
obiettivo. Se non voglio le bombe, visto che non ho difese,
devo accettare queste condizioni che negli anni, mi hanno
comunque permesso di realizzare grandissime opere”.
Di fronte a tale eloquente risposta, provai un enorme disagio
accompagnato da una profonda amarezza che, a distanza di oltre
un decennio non riesco a dimenticare.
Potrebbe anche trattarsi di una riflessione esagerata e
superata dai tempi, nel qual caso sarei il primo a rallegrarmene,
ma l’esperienza mi suggerisce che, trattandosi di un
settore ad altissimo rischio, le cautele non sono mai eccessive.
3
Forse sono stato noioso, ma in modo semplice ho voluto raccontare
uno dei tanti episodi direttamente vissuti che, più
di altri, ancora adesso ed a distanza di tanti anni mi provocano
sgomento, ponendomi allo stesso tempo un interrogativo: “Con
la mafia dobbiamo convivere? Se la risposta è no, come
credo fermamente, chiediamoci cosa fare per evitare il perpetuarsi
del fenomeno, cominciando a creare le condizioni ideali perché
possa crescere l’imprenditoria locale, possibilmente
quella sana.”
Con questo auspicio concludo questo mio ragionamento, rispondendo,
sia pure virtualmente, a quelli che hanno detto o semplicemente
pensato che “con la mafia dobbiamo convivere”.
Bari, 16 maggio 2004
giovannifalcone@excite.it
(1)
Legge 19 marzo 1990, nr.55. Nuove disposizioni per la prevenzione
della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di
manifestazione di pericolosità sociale.
Si ringrazia Giovanni Falcone per la collaborazione.
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